L’elezione di Pierluigi Bersani a Segretario del Pd era stata appena confermata dai dati ufficiali – si parla di 3 milioni e 67 mila votanti con un consenso per l’ex ministro di circa un milione e seicentomila suffragi, pari al 53% – che già i mal di pancia sono ricominciati. Ignazio Marino, col suo 12 e passa per cento di voti, è rientrato nei ranghi, secondo l’espressione di D’Alema.
Franceschini ha dichiarato il suo impegno per il partito, ma ha riunito i suoi sostenitori, per organizzare la sua componente, la cui linea politica non va nella stessa direzione di quella di Bersani. Chi è uscito allo scoperto, con una tempestività che non lascia spazi a dubbi, è stato Francesco Rutelli, il quale prima ha manifestato il suo disagio, poi ha informato che l’uscita non sarebbe stata immediata, lasciando così uno spiraglio al rientro della sua decisione.
E infatti, D’Alema è partito in quarta nel tentativo di convincere Rutelli a restare, ma senza risultati. Poi, due giorni dopo, l’annuncio dell’uscita immediata dal Pd di uno dei suoi cofondatori, Francesco Rutelli, appunto.
Che cosa lo ha spinto ad accelerare la decisione che pur era stata data per un futuro imprecisato ma non vicino?
Evidentemente, Rutelli si è cominciato a sentire accerchiato dai tentativi fatti per convincerlo a desistere e alla lunga sarebbe stato difficile mantenere la sua decisione. Che chiaramente era stata già presa da tempo ed anche forse concordata con Pier Ferdinando Casini.
In un’intervista al Corriere della sera e in interventi pubblici, Rutelli ha motivato la sua uscita da un partito “bambino mai nato” dicendo che con Bersani il Pd avrebbe guardato piuttosto a sinistra che verso il centro, mentre era chiaro che l’Unione di Prodi era fallita proprio per questa miscellanea di posizioni in contraddizione l’una con l’altra. Rutelli ha aggiunto che il Pd era diventato la continuità del Pci-Pds-Ds con indipendenti di sinistra, che non si era distaccato dal giustizialismo tipico dei vecchi comunisti e che l’odio prevaleva sulla riflessione e sulla visione politica. Infine, ha ribadito che il Pd era diventato un’accozzaglia di personalismi che non avrebbe potuto portare da nessuna parte.
Ora, che l’analisi e i giudizi di Rutelli contengano delle diffuse verità non è un mistero, ma l’impressione è che avrebbe abbandonato il Pd anche se avesse vinto Franceschini, il cui tasso di odio nel sangue nei confronti dell’avversario è certamente di gran lunga superiore a quello di tanti altri Democratici.
E allora?
La realtà è che Rutelli ha constatato che anche Franceschini non avrebbe potuto costruire un vero Pd, sia perché i radicalismi e l’odio sono entrati in un vicolo cieco, con la prevalenza dei personalismi e delle oligarchie interne, sia perché l’amalgama non è riuscito e difficilmente riuscirà e sia ancora perché il radicalismo (con il corteo del giustizialismo) il Pd se lo sta crescendo da tempo con l’alleanza con un Di Pietro che può portare solo guai.
Ecco perché la decisione di Rutelli è maturata da tempo ed ecco perché già all’inizio della primavera scorsa Casini ha annunciato che entro la fine dell’anno avrebbe annunciato la costituzione del Partito della Nazione. Ed ecco anche perché Rutelli si sarà detto: o adesso o mai più, e la prospettiva di rimescolare le carte con la costituzione di un grande centro è stata determinante.
Rutelli ha annunciato un Manifesto politico e un gruppo numeroso di sostenitori per una formazione autonoma ma parallela all’Udc. Si parla di Tabacci, di Linda Lanzillotta, di Dellai e di altri, però per adesso ancora nell’ombra. L’ipotesi di Casini e di Rutelli è di allargare il centro per contare su un bacino di circa 5 milioni di voti (15%) per fare un’alleanza di governo con il Pd che, arrivando al 25-30%, potrebbe contare su una maggioranza col sostegno esterno di ciò che resta della sinistra radicale non confluita nel Pd di Bersani.
L’idea, va subito detto, non è campata in aria, anzi, è anche intelligente ed ambiziosa, anche perché dal Pdl sicuramente ci sono personaggi scontenti ed insofferenti di un ruolo marginale e pronti a confluire verso un centro più largo e più politicamente autorevole.
Restano tuttavia vari ostacoli. Il primo è che raggiungere i 5 milioni di voti non è semplice. Quanti ne porterà Rutelli? Non verranno dal Pd i suoi voti? Quanti voti il Pd riuscirà ad aggregare dalle varie formazioni di sinistra, che comunque messe insieme non riescono ad oltrepassare il 5%? E poi: è sicuro che dal Pdl ci sarà un’emorragia di personaggi e che questi portino anche voti?
L’ipotesi dei “leader paralleli” Casini e Rutelli poggia sulla disgregazione del berlusconismo. Questo, prima o poi, entrerà in crisi, se non altro per l’età anagrafica del premier, che alla fine della legislatura avrà 77 anni, ma è dubbio che un Pdl senza la guida di Berlusconi non sopravviva. In fondo, nel Pdl, la lotta per la successione è già iniziata e nel caso in cui Berlusconi venga neutralizzato dalla magistratura possono essere in tanti a prendere le redini del Pdl, da Tremonti a Fini.
Infine, c’è almeno un altro aspetto importante ed è che non sempre le ciambelle riescono col buco: bisogna vedere se i calcoli di Casini e di Rutelli poggeranno su dati realistici o ipotetici o addirittura immaginari. Ma questo lo si giudicherà nel corso della trama degli avvenimenti politici a venire.
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