Ripartono i colloqui, questa volta “diretti”, tra israeliani e palestinesi, ma sui risultati prevalgono più i dubbi che le certezze. La data fissata è il 2 settembre, a Washington, dove si recheranno Netanyahu e Abu Mazen, e dove saranno presenti, ciascuno con il suo ruolo, il Quartetto, cioè Usa, Ue, Onu e Russia, con l’adesione di Hosni Mubarack e di Abdallah, re di Giordania. L’annuncio dato da Hillary Clinton è secco e misurato: “Vogliamo risolvere in un anno la questione dello status finale, con israeliani e palestinesi che vivono in pace e sicurezza, l’uno accanto all’altro”.
Perché prevalgono i dubbi sulle certezze? Per almeno due motivi. Il primo è che di annunci di questo genere ne sono stati fatti tanti nel corso degli ultimi decenni, tutti lanciati con grande entusiasmo e tutti naufragati dopo le prime difficoltà o appena dopo la firma degli accordi, come accadde a Camp David, sotto la presidenza di Bill Clinton. La prima volta in cui si firmò dopo tanti anni di conflitti fu nel 1979, allorché Sadat e Begin raggiunsero un accordo, poi andato in fumo, sotto la presidenza di Jimmy Carter. L’altra grande speranza nacque nel 1993, quando nel Giardino delle Rose ci fu la storica stretta di mano tra Arafat e Rabin, dopo gli accordi di Oslo. Anche in quell’occasione le speranze morirono subito dopo la fioritura. Bill Clinton, come abbiamo detto, ci riprovò a Camp David, nel 2000, con Arafat e con Ehud Barack. Ci riprovò Bush nel 2008, quando fu approvato un percorso di pace con scadenze precise, tutte non mantenute.
Ora, appunto, ci riprova Obama, che dai “colloqui indiretti” sta passando ai “colloqui diretti”, dopo la crisi di qualche mese fa, quando gli israeliani, ispezionando una nave partita dalla Turchia e diretta a Gaza, di fronte alle violenze messe in atto da un gruppo di “pacifisti”, risposero con le armi facendo una strage. Questa lunga serie di speranze tradite è la causa della predominanza dei dubbi sulle certezze.
Gli altri dubbi – ed è il secondo motivo – sono le posizioni di partenza, troppo distanti per potersi avvicinare con un accordo solido. Abu Mazen ha già fissato i suoi paletti che sono: il ritorno ai confini del 1967, Gerusalemme capitale non solo di Israele, ma anche del nuovo Stato palestinese, fine dell’occupazione di Giudea e Samaria, proclamazione dello Stato nel 2012. Ed ecco quelli di Netanyhau: cessione del 90% della Cisgiordania e ritiro di 50 mila coloni, nessun ritorno ai confini del 1967 e Gerusalemme “capitale unica e indivisibile” di Israele. Per capire la distanza, precisiamo che i coloni in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e sulle alture del Golan sono 600 mila, e che i fragilissimi equilibri esistenti in Medio Oriente possono far saltare in ogni momento il tavolo delle trattative.
Però, anche in queste condizioni, l’ottimismo della volontà deve prevalere.
Obama, dal canto suo, ha assolutamente bisogno di un successo per rilanciare la sua immagine appannata: la sua politica del dialogo e della pari dignità, giusta quanto si vuole, finora non ha portato a nessun risultato apprezzabile. Di fronte a lui ci sono l’Afghanistan, l’Iraq e la trattativa israelo-palestinese: anche un solo successo può rappresentare la rimonta della sua immagine, ma al momento sono in pochi a scommetterci.
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