I popoli europei tra rischi di chiusura e volontà di rinnovamento
Popolo e cantoni svizzeri hanno detto no alla libera circolazione con il Ticino schierato contro i lavoratori trans – frontalieri.
Ha prevalso la paura unita all’egoismo delle classi dirigenti. È il fallimento della politica dei diritti della pari dignità. Nell’Europa dei 28 gli stranieri sono 32,5 milioni, pari al 6,5% della popolazione complessiva. Ad essi sono da aggiungere altri 14,8 milioni di stranieri che si sono naturalizzati, per un totale di 47,4 milioni di nati all’estero, pari a circa un decimo (9,4%) della popolazione europea. Le dimensioni quantitative, comunque, sono solo l’aspetto più immediato di un problema, che è destinato a durare nel tempo, anzi, secondo gli analisti più accreditati, ad accrescersi. Ci troviamo di fronte, dunque, ad un fenomeno strutturale verso il quale la lungimiranza ed il realismo delle classi dirigenti dovrebbero indurre a combinare misure più immediate di governance con progetti di integrazione di queste nuove forze nelle strutture economiche e sociali dei singoli paesi e della stessa Unione. Non posso fare a meno di confessare, da migrante quale sono e da convinto europeista, un sentimento di desolazione nel constatare con quanta superficialità e talvolta addirittura stupidità si affronti il tema delle migrazioni. L’emigrazione può essere un’occasione di più profonda e realistica considerazione critica non solo per la storia italiana, ma anche per la vicenda europea, perché può contribuire a far comprendere il cammino che l’Europa ha seguito per raggiungere un livello primario di sviluppo economico e sociale, per configurare un modello di welfare che ha connotato in modo significativo buona parte del Novecento.
In un momento di grave difficoltà dell’Eurozona, nel quale sembrano essere rimessi in discussione i vincoli di coesione economica e istituzionale concepiti da grandi intellettuali del Novecento e dai governi più illuminati in oltre mezzo secolo di impegno politico, l’esistenza di una rete di comunità originarie di diversi paesi comunitari rappresenta un ancoraggio consolidato e utile per il futuro del continente.
Senza eludere le difficoltà che oggi si presentano nelle relazioni multilaterali ed edulcorare con melassa populistica le tensioni che si stanno sviluppando tra gli stessi partner comunitari, è difficile negare la spinta positiva che può venire dalle comunità di stranieri integrati nei diversi paesi comunitari per il superamento delle presenti difficoltà e la ripresa di un cammino comune.
Le scelte dei popoli, come in occasione della consultazione referendaria in Svizzera, e le azioni politiche di singoli governi, tuttavia, sembrano andare in direzione diversa. Così, mentre si addensano nubi sempre più fitte nel cielo della moneta unica, uno dei capisaldi dell’Unione, anche un altro pilastro sembra vacillare, il principio della libera circolazione sancito con gli accordi di Schengen.
La maggioranza del Parlamento europeo, come è noto, ha respinto con nettezza l’eventualità di ripristinare i controlli alle frontiere. Tuttavia, sarebbe ingenuo pensare che il voto abbia dissipato d’incanto le tensioni accumulatesi tra i governi in materia di libera circolazione e che per il futuro non ci si debba attendere momenti di regressione verso i migranti sul piano normativo e su quello dei controlli amministratiti, sia in direzione di filtri sempre più rigidi alle frontiere. In definitiva, la situazione della mobilità e dell’integrazione dei migranti nella società europea fa tutt’uno con l’impegno dell’Unione e dei singoli paesi a superare la crisi attuale avviando non solo uno sviluppo diverso e più equilibrato, ma anche un sistema di relazioni sociali più equo e aperto.
Il valore della presenza italiana in Europa, comunque, oltre che dagli indirizzi e dalle politiche comuni, dipende anche dalla visione che la classe dirigente del nostro paese ne ha e dalla capacità di utilizzarla intelligentemente per sostenere l’internazionalizzazione dell’Italia.
Oggi l’emigrazione, soprattutto dal Sud, è ripresa in modo consistente e anche se non è facile darne una definizione quantitativa, perché spesso si traveste da mobilità temporanea, sta accentuando il rischio di desertificazione delle aree interne. Il fatto poi che le partenze riguardino anche migliaia di giovani diplomati e laureati, comporta una preoccupante caduta di energie indispensabili per la modernizzazione e lo sviluppo di intere aree del paese. Non è in discussione, naturalmente, l’opportunità di compiere esperienze qualificate di lavoro anche prolungate all’estero, che rappresentano un fatto positivo e addirittura augurabile.
Restare tuttavia a guardare questi fenomeni senza studiarli rigorosamente e cercare di regolarli e convertirli in valore aggiunto per l’economia e per la qualità sociale del paese, significa assecondare una deriva involutiva di cui si colgono i sintomi già da alcuni anni. Coniugare le potenzialità delle nuove generazioni d’origine esistenti in alcune aree cruciali dell’Europa con quelle dei protagonisti delle così dette “nuove mobilità” significherebbe in sostanza legare lo sforzo di ripresa e di ricollocazione internazionale dell’Italia a soggetti e fattori moderni e dinamici
Ecco, dunque, due impegnativi banchi di prova per l’Italia: l’assunzione delle migrazioni come elemento essenziale della contemporaneità e come leva strategica di un diverso sviluppo globale; il riferimento alla rete comunitaria degli italiani in Europa come fattore di coesione sociale e modello di convivenza interculturale.