Lo zoccolare dei cavalli, e il rullio cadenzato delle ruote, senza troppi sussulti assecondano le asperità del terreno, non proprio inappuntabili da quelle parti; ma la madre e il bambino sono stati sistemati in modo da non subire troppe scosse. Il drappello, in viaggio da alcune settimane, conta di giungere presto a destinazione; e avanza cautamente veloce, soprattutto dopo che al bivio non ha preso verso il Danubio, ma ha deviato in direzione nord. Certo, ci vorrà ancora qualche giorno prima che il rapporto giunga all’imperatore, ma occorre fare in fretta, quando lo scarto non è stato ancora notato.
Alla guida, imperioso e guardingo, sta un giovane di venticinque anni, sicuro che i compagni stanno dalla sua parte. Dovunque abbia avuto a che fare con la truppa, se ne è sempre conquistata la fiducia e la stima; e anche adesso sa che quel gruppetto di soldati sarebbe pronto a dare la vita per lui. Da ciò confortato, contiene la rabbia che ha nutrito fin dal giorno della mancata elezione; ma quanto a lungo, da allora, ha morso il freno dell’ira e della delusione, per essere stato così maleducatamente accantonato da chi nei posti chiave del comando ha invece insediato due sue pedine, per poterne usare a piacimento. E che altro era stata quella farsa della nomina di Massimino? E quell’altra di spedire segretamente Severo da Costanzo, non tendeva a mettergli alle costole un altro fantoccio, per sorvegliare da vicino l’autorevole rivale che avrebbe avuto più diritti? E Diocleziano, del resto, perché non aveva impedito quella sconcezza?
Troppo rispetto, non esente da una conflittuale nota di pietà filiale, Costantino nutriva nei riguardi dell’imperatore dimissionario, che l’aveva voluto tribuno, e dal quale tanti insegnamenti aveva tratto nell’arte della guerra e del comando, oltre a riceverne una spontanea simpatia, appena contenuta sotto quella maschera poco espansiva. Questo però non gli aveva impedito, per tutto il tempo che gli era stato accanto, a Nicomedia come in Egitto e in Persia, di affiancare alla grande considerazione anche alcune convinte riserve, che ai suoi occhi velavano l’operato del grande vecchio. Tra queste certamente serpeggiava la perplessità che a Diocleziano fosse sfuggito, forse a causa della malattia, che la propagazione cristiana era stata affrontata in maniera inadeguata, con inutili editti dal discutibile esito. Il glorioso imperatore non si era reso conto che la questione era ben più complessa, e toccava un modo di essere e di sentire senza precedenti; non aveva capito che nei cristiani operava una forza di marca inedita, che non poteva essere contrastata con gli strumenti della repressione, e che i divieti, per quanto severi, non ne avrebbero arginato l’espansione. O forse, a giudicare da talune esternazioni occasionali, forse Diocleziano l’aveva pure intuito; ma non aveva saputo forgiare le armi ideologiche per convogliarne il flusso, si spingeva a ipotizzare Costantino, senza peraltro avere il minimo sentore della lenta battaglia interiore che aveva portato Diocle all’abdicazione.
Si fosse solo presentata come una diversa, benché fallace stima politica, la remissività di Diocleziano avrebbe trovato venia ai suoi occhi. Essa invece si duplicava di un’altra riserva, per avervi scorto il refe della subdola opera tramata da Galerio: per cui, nella misura in cui quella tessitura lo concerneva direttamente, smetteva di darne una valutazione astratta, e si caricava del furore dell’umiliazione e della vendetta. Ché di certo era stato un lavoro insistito su un organismo sfibrato a persuadere Diocleziano a lasciare il potere nelle mani di quell’essere insidioso, così atrocemente cieco e brutale, capace di affrontare i problemi con la forza, ma privo della larghezza di vedute degna di un governante. E invece Galerio, solo avido di potere, non lo esercitava al servizio dello Stato, ma ne abusava a discrezione: non diversamente da quell’altro arruffone di Massimiano, così meschinamente avvolto nella sue basse voglie. Ed era qui che la riserva più generale su Diocleziano si coniugava in Costantino a una più intima rivolta: per il fatto che si fosse lasciato distogliere da Galerio dall’intenzione, che gli aveva più volte espresso, di volere proprio lui, Costantino, come legittimo benché non immediato erede! Che tristezza, che un simile uomo si fosse così pigramente lasciato prevaricare da quell’energumeno di cui certamente conosceva la natura, e alla quale, chissà perché, non aveva saputo opporsi.
A un individuo della sua autostima, e che neanche per un momento dubitava delle proprie capacità e della propria stella, poco importava la magra consolazione che, nell’accantonarlo come cesare a favore di Massimino, implicitamente Galerio tradiva nei suoi riguardi, più che noncuranza, una sorta di preoccupata considerazione. Quello scavalcamento calcolato additava bene in Galerio il timore di dare potere a un ufficiale tanto talentuoso, determinato e brillante, che mieteva soltanto successi, e che presto l’avrebbe oscurato. Ma se obtorto collo deglutiva le qualità di Costantino, Galerio non era certo uomo da valorizzarle francamente con generosa magnanimità. Al contrario, la statura del giovane, più che suscitargli rispetto e ammirazione, gli provocava solo frenesia di occultarla e ridurla, con i mezzucci della mediocrità che invidia al genio. Per questo, sordo alle richieste di Costanzo che ne reclamava la presenza in Britannia, non aveva voluto che Costantino raggiungesse il padre in quelle regioni, dove avrebbe potuto, non frenato da lui, mettersi in evidenza e brillare; e aveva continuato a tenerlo a Nicomedia, inattivo, recalcitrante, e impossibilitato a compiere qualsiasi impresa notevole.
Ma infine, sia che non avesse più argomenti, oltre a una blanda neghittosità, per opporsi più oltre alla pressante richiesta di Costanzo; sia che quella presenza a Nicomedia gli riproponesse con insistenza il cruccio del confronto, l’imperatore si era un giorno inventata l’impellenza superiore che i confini mai interamente sicuri richiedevano la presenza di un condottiero affidabile e esperto; e aveva deliberato di inviare Costantino a dirigere i reparti stanziati lungo il Danubio. In questo modo, da un lato poteva esibire a Costanzo non il malvolere di un capriccio ma la necessità di una strategia; e dall’altro si illudeva di tacitare l’orgoglio di Costantino, al quale offriva il falso compenso di un comando, ma pensando in realtà di toglierselo da piedi. Così che, senza farlo sparire platealmente, al rischio di pericolosi moti di malcontento tra l’esercito e il popolo, programmava di destinarlo all’oscurità, con l’inespressa vaghezza che una freccia sarmata gli togliesse definitivamente di torno quel rompiscatole.
Anche Costantino, da parte sua, pur scalpitando di impazienza, temporeggiava, timoroso di lasciare il bambino di pochi mesi e la gracile madre in ostaggio al mostro. E meditava su come organizzare per loro una sistemazione sicura; finché, appena ne ebbe definiti i dettagli, chiese di mettersi in viaggio unitamente con la famiglia, servendosene addirittura da copertura, per rassicurare Galerio sulle sue buone intenzioni di andare a rassegnarsi sul Danubio, buono buono. E così, facendo di necessità virtù, contando sulle proprie capacità e sulla fedeltà del drappello, salutò con calcolato entusiasmo il giorno della partenza; e si mise in marcia per il Danubio, covando l’audace piano che doveva a un tempo mettere al sicuro Minervina e Prisco, e sottrarre se stesso al controllo di Galerio per ricongiungersi al padre.