Il Medio Oriente negli ultimi dieci mesi non è mai stato così al centro delle attenzioni come ora. Nel giro di poche settimane c’è andato Berlusconi, il Sottosegretario di Stato Usa, Hillary Clinton, il vice presidente Joe Biden, il presidente del Brasile, Lula, di nuovo George Mitchell, il presidente Napolitano, Lady Ashton, ministro degli Esteri dell’Ue, tanto per citare alcuni tra i più importanti. Cosa sta succedendo?
Berlusconi aveva rotto per primo un immobilismo durato 14 mesi, rilanciando il dialogo e soprattutto invitando Israele, da amico, a ritirarsi dai Territori per dare il segno tangibile della volontà di dialogo e di pace.
In realtà, si era mosso all’interno di un disegno americano che intende coinvolgere la Lega Araba nei cosiddetti negoziati indiretti, cioè con gli interlocutori in stanze separate e un mediatore a fare la spola.
Ebbene, quando il vice presidente Usa, Joe Biden, si è recato in Israele, è stato accolto con una notizia che è stata un siluro al tavolo delle trattative.
Il ministro degl’Interni israeliano, Eli Yishai (nella foto), lo ha infatti accolto con un annuncio choc: Israele avrebbe costruito 1600 nuove abitazioni a Gerusalemme Est, dunque nuovi coloni invece di un ritiro. La crisi diplomatica è stata immediatamente palpabile, da parte del governo ci sono state scuse ufficiali, la toppa è stata messa, ma in realtà è scoppiata la crisi prima di sedersi attorno ad un tavolo.
La crisi non è una sola, ce ne sono tante. La prima è con gli Stati Uniti, giunta ad un livello così critico come non lo è stato mai negli ultimi trent’anni. Il disappunto degli Usa è che proprio quando con grande fatica stavano per iniziare nuovi colloqui, da parte di Israele – e in una maniera così teatrale – si è scavato un fossato che non sarà superato in poco tempo. È a questo punto che sono cominciati i giochi al rimbalzo e i sospetti. Gli Usa hanno detto che bisognava quanto meno aspettare prima di dare un annuncio del genere; Israele ha risposto che la notizia era vecchia, già si sapeva che c’era questo progetto; gli Usa hanno replicato che la decisione è un macigno sulla strada del dialogo; Israele ha detto chiaramente che si va avanti con le colonie e non ha nascosto la sua irritazione per l’immobilismo americano nei confronti dell’Iran, anzi, vari commentatori hanno avanzato il sospetto che Obama voglia far cadere il governo Netaniahu. Le ultime notizie sono che la Casa Bianca vuole fare una proposta nuova, che sarebbe in rottura col passato.
La seconda crisi è con i palestinesi, che hanno ripreso con il lancio delle pietre a Gerusalemme, con spari e con lanci di missili da Gaza che hanno fatto un morto e che hanno provocato la reazione di Israele.
Le armi, dunque, continuano ad arrivare attraverso i tunnel sotterranei tra l’Egitto e la Striscia di Gaza, ma pare che a lanciarli più che quelli di Hamas siano gruppi di Salafiti qaedisti di Ansar Al-Sunna, in poche parole gruppi di terroristi venuti da fuori.
Insomma, c’è il rischio che Hamas sia stato surclassato da professionisti del terrore che vogliono a tutti i costi far scorrere il sangue e creare un conflitto permanente. Il missile che ha ucciso un bracciante thailandese è caduto mentre Lady Ashton stava visitando Israele e lo scoppio è stato uno choc per il ministro degli Esteri dell’Europa, tra l’altro ad un paio di mesi appena dall’inizio del suo incarico, quindi ancora non a suo agio nei punti di maggiore crisi.
La terza crisi – lo abbiamo accennato a proposito di Lady Ashton – è con l’Europa, dove gli amici di Israele sono rimasti ufficialmente in pochi e sono Silvio Berlusconi e Angela Merkel.
È a loro che il capo del governo israeliano ha telefonato per sapere l’aria che tira a Washington, ma la risposta, più che i due interlocutori, l’hanno data le dichiarazioni ufficiali, che sono di gelo con Israele.
La questione fondamentale è che il processo di pace, in quella regione, ogni volta che ha fatto un progresso è stato subito rimesso in questione di volta in volta da nemici della pace che si annidano in tutti e due i campi, i cui soggetti si muovono ad incastro e a catena.
Pesa sul tavolo difficile della ripresa delle trattative l’incognita Iran, o meglio, il successo o meno delle sanzioni contro l’Iran che s’annunciano severe, ma hanno difficoltà a vedere la luce. Questa volta ad opporsi a delle sanzioni serie contro l’Iran è la Cina, specie dopo la rottura con gli Usa. I commentatori di politica internazionale hanno mostrato come ogni società petrolifera che abbandona l’Iran è rimpiazzata da una società cinese. Gli interessi sono evidenti, anche se la Cina non può alla lunga isolarsi dai Paesi che contano. Anche la Russia, da sempre non ostile all’Iran, negli ultimi mesi ha preso le distanze da un Paese che per le sue posizioni all’interno e all’esterno costituisce un pericolo. Le sanzioni erano state annunciate per i primi dieci giorni di marzo, poi date per imminenti, ed ora ancora in fase di trattativa all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Va da sé che un percorso più lineare verso il dialogo dipende dalla capacità americana di mettere il silenziatore ai nemici della pace. Ne sapremo di più quando la nuova proposta statunitense sarà messa nero su bianco.