E’ accaduto in Canada e il motivo era che vivevano all’occidentale
Ricordate Hina, la ragazza marocchina uccisa dal padre con la complicità di un parente perché in Italia voleva “vivere all’occidentale”? Ebbene, di Hina ce ne sono tante, sparse in tutto il mondo, tutte uccise dai loro più stretti parenti, tutte colpevoli unicamente di vivere e di integrarsi nel luogo dove sono capitate. Hina fu uccisa nel 2006 in Italia e sotterrata nel giardino di casa, dopo il macabro rito della gola tagliata, perché usciva con un ragazzo italiano, ma le altre storie sono tutte simili. Quella che vi stiamo per raccontare viene dal Canada e riguarda una famiglia intera. Il padre, Muhammad Shafia, 58 anni, lascia il suo Paese, l’Afghanistan, nel 1992 e porta con sé la prima moglie, Rana, la seconda moglie, Tooba, sposata perché la prima non poteva avere figli, e volta per volta i figli che nascevano: Zainab, 19, Sahar, 17, e Geeti, 13. I Paesi dove emigra sono dapprima il Pakistan, poi l’Australia, quindi l’Arabia Saudita. Evidentemente non si trova bene in nessuno dei Paesi citati, per cui, nel 2007, giunge in Canada. Qui si mette a lavorare facendo il commerciante. Non gli deve andar male, ma non è il lavoro che lo preoccupa, sono le figlie, che vanno a scuola e che giorno dopo giorno si trovano bene, fanno amicizia con i loro coetanei, specie con gli altri piccoli afghani emigrati, s’interessano di musica, insomma, s’inseriscono nel ruscello della vita che a poco a poco scorre loro davanti con la spensieratezza tipica della loro adolescenza. Il padre dovrebbe essere felice di quella bella famiglia allargata, la prima moglie probabilmente viene fatta passare per sorella, perché nemmeno in Canada, non solo in Italia, è ammessa la poligamia. Ma si sa, ad alcune persone viene permesso ciò che vieta alle altre, con la scusa delle diverse origini e della diversa cultura. Dovrebbe dunque essere felice e invece ogni giorno che passa c’è un tarlo che gli rode dentro, il tarlo dell’integralismo religioso. Se fosse per lui, Muhammad non farebbe uscire mai le sue figlie, le terrebbe chiuse in casa con il velo, ma in Canada non si può, anche le ragazze devono andare a scuola ed hanno il diritto di uscire.
Le tre sorelle crescono, dunque, con un’atmosfera pesante in casa: loro non devono fare ciò che alle altre bambine è lecito. D’altra parte, non fanno nulla di male, è normale vivere come le altre bambine in un Paese come il Canada. Sognano, parlano con i compagni di scuola, magari ce n’è uno più simpatico di altri, insomma, nulla ma proprio nulla di male. Semmai, a fare qualcosa di male non sono loro, ma il padre, che tratta male la prima moglie, la picchia, la umilia. La storia del padre-padrone è nota anche in certe zone del Sud Italia. Vi ricordate il libro Padre-Padrone, scritto da un pastore sardo, Gavino Ledda, anni fa? Beh, nulla in confronto al padre padrone afghano. Il quale, di fronte al comportamento delle figlie, ripetiamo, colpevoli di nulla, assume un atteggiamento di repressione, esige il rispetto di regole incomprensibili, reagisce non come un padre normale, ma come un folle. Tutti i padri e le madri cercano di educare i figli secondo regole più o meno comuni, tutti i figli e le figlie vivono la loro età e non sempre fanno ciò che i genitori dicono. Questo, però, per Mahammad era intollerabile ed allora ragazze così, figlie o non figlie, meritavano una lezione. Per un anno Zainab non viene mandata a scuola perché il padre aveva scoperto che aveva un fidanzatino pakistano canadese. Siccome ha 19 anni, ad un certo punto non ne può più delle botte e delle umiliazioni che le fa subire il padre e un giorno scappa via di casa e si rifugia in un centro di assistenza. Poi la fuga rientra. Anche Sahar ha un amico e la cosa è ancor più intollerabile perché è cristiano. Geeti, invece, vive un disagio che si manifesta con l’indisciplina a scuola. Per farla breve, un giorno, esattamente il 30 giugno del 2009, i corpi di Rana, la prima moglie, e delle tre figlie, vengono ritrovati nell’abitacolo di un’auto finita in un canale, a Klingston, nell’Ontario. Lui, il padre, si giustifica dicendo che volevano provare a guidare e sono finite nel canale, ma la polizia non ci crede, e quando fa intercettare i loro telefoni, scopre che il padre definisce “prostitute” le sue figlie, che era tutt’altro che infelice per la loro sorte, che si augurava che “Satana defecasse sulle loro tombe”. Non ci vuole molto a capire che l’autore di quell’”incidente” era lui, il padre, che ha agito con la complicità del figlio, il maschio della famiglia, cui tutto è permesso perché è l’incarnazione delle regole che andranno rispettate e trasmesse di padre in figlio, e con il tacito consenso della seconda moglie, madre delle bambine uccise barbaramente per aver osato vivere la loro adolescenza e la loro giovinezza. Il processo si è concluso con la condanna all’ergastolo di tutti e tre i componenti della famiglia: padre, madre e figlio maschio. Questi ultimi hanno fatto ricorso in appello, il padre no, non lo farà, perché non fa appello uno che dice: “Anche se m’impiccheranno, nulla mi sarà più caro del mio onore”. Ma quale onore può derivare dall’uccisione delle proprie figlie?