Un colpo di Stato come non se ne vedeva da anni ha scosso l’America Latina: in Honduras l’establishment della destra ha spinto i militari a sequestrare e portare a forza in Costa Rica il presidente Josè Manuel Zelaya, in carica dal 2006.
Il golpe, il primo in America Centrale dalla fine della Guerra Fredda, è la conseguenza del tentativo di Zelaya – il cui mandato quadriennale sta per scadere – di modificare la Costituzione per potersi ricandidare nel 2010 per un altro mandato. Proprio domenica era in programma il referendum di modifica della Costituzione e si sarebbe dovuto votare. Ma l’intervento dei militari ha fermato tutto, con improvvisa violenza anche se senza spargimento di sangue. Il Parlamento ha inoltre comunicato di aver nominato – con votazione per alzata di mano – nuovo capo di Stato Roberto Micheletti, presidente dello stesso Parlamento.
Dopo le prime ore di confusione, Washington ha reagito in modo netto. Per il segretario di Stato Hillary Clinton sono stati “violati i principi democratici”.
“È un’azione che tutti devono condannare”, ha dichiarato, chiedendo alle parti “di rispettare l’ordine costituzionale e la legge e di impegnarsi a risolvere le divergenze politiche in modo pacifico e con il dialogo”.
Più veementi le condanne di quasi tutti i governi dell’America Latina, all’unisono con l’Unione Europea e l’Organizzazione degli stati americani (Osa). I comunicati di condanna non hanno però bloccato, a Tegucigalpa, la nomina di Micheletti a successore del deposto Zelaya. Poco prima, la Corte suprema di giustizia aveva reso noto che era stata la stessa Corte a ordinare ai militari “l’arresto” e la successiva espulsione, a bordo di un aereo diretto in Costa Rica, di Zelaya.
“È assolutamente falso che io mi sia dimesso”, ha tenuto a sottolineare in una delle numerose interviste concesse ai giornalisti in Costa Rica il presidente. E ha raccontato di essere stato “sequestrato” da circa 200 soldati entrati nel palazzo presidenziale alle prime ore del giorno. Nello stesso tempo, i golpisti hanno anche arrestato almeno sette ministri, mentre la first lady Xiomara Zelaya è riuscita a nascondersi in una zona montagnosa dell’interno.
Nel raccontare le sue vicissitudini (“Mi hanno svegliato sparando, e sono stato portato via in pigiama”), il presidente ha accusato “sei o sette esponenti” dell’establishment honduregno di essere i principali organizzatori del colpo di Ctato e ha chiesto a tutti i suoi sostenitori di dare il via “alla resistenza civile, pacificamente e senza violenza”.
E anche se i golpisti hanno chiuso uno dopo l’altro i canali tv e la radio filogovernativa, sono stati tanti gli honduregni che fin dal mattino sono scesi in piazza affrontando i blindati per chiedere il ritorno di Zelaya. Ma sono stati dispersi con i lacrimogeni. Secondo Doris Gutierrez, deputata del partito di sinistra Unificacion Democratica, già quando, pochi giorni prima, era cominciato il braccio di ferro tra Zelaya e il capo delle forze armate Romeo Vasquez – che si è rifiutato di far trasportare le urne per il referendum voluto dal presidente – Hillary Clinton sarebbe intervenuta per gettare acqua sul fuoco. Tant’è che, a suo dire, i quattro partiti presenti in Parlamento che volevano approvare la destituzione di Zelaya e nominare un suo successore hanno dovuto desistere. I golpisti hanno però finito per entrare in azione: hanno espulso il presidente ed ora faranno fronte alle reazioni. Chavez, che li ha definiti “trogloditi” e non ha esitato a puntare il dito su Washington, ha avvertito che se toccheranno il suo ambasciatore o la sede dell’ambasciata “potremmo agire anche militarmente”.
E in America Latina è scattata una sorta di operazione “isolamento”: già in passato, in questo modo, sono state sconfitte mire golpiste in Paraguay nel 2000 ed in Bolivia nel 2008. Così come, nel 2005, tale unanime atteggiamento, ha fatto finire nel nulla, in sole 48 ore, il golpe contro Chavez.
In quell’occasione un settore delle forze armate ha finito per chiamarsi fuori. Indizi in tal senso ci sarebbero, secondo alcune fonti, anche in Honduras.