Cgil e Pd, ma anche idv e lega, dicono no alle modifiche dell’articolo 18 ma il provvedimento non si applicherà alla pubblica amministrazione
Alla fine Mario Monti ha man-tenuto la promessa di chiudere la trattativa sulla riforma del mercato del lavoro e, sia nel metodo che nel merito, è riuscito a scontentare un po’ tutti. Vediamo prima il metodo. Niente decreto legge, come era successo per la riforma delle pensioni, ma solo un disegno di legge “salvo intese”, il che significa che il testo del disegno di legge potrà arrivare in Parlamento con calma, alcuni dicono non prima di due mesi. Non solo. Mentre il decreto legge avrebbe costretto i partiti alla discussione ma poi, in assenza di una distanza di proposte e posizioni, il governo avrebbe potuto porre la fiducia e certamente l’avrebbe ottenuta altrimenti ci sarebbe stata la crisi di governo e le elezioni anticipate, scegliendo la strada del disegno di legge si è scelta la strada più lunga e anche più tortuosa, nel senso che il testo della riforma potrebbe uscirne diverso e, in riferimento all’articolo 18, anche peggiore di quello di adesso. Ancora: scegliendo il decreto legge, il governo avrebbe lanciato un segnale ai mercati: la riforma più vicina e più certa avrebbe spinto alla crescita e alla modernizzazione. Con la strada del ddl non è improbabile che gli investitori ritirino o comunque affievoliscano la fiducia nell’Italia. Il merito. Si sapeva che la riforma del mercato del lavoro sarebbe stato un grosso scoglio e infatti la trattativa è stata segnata da polemiche e tentativi di rinvio. Nel governo stesso c’è stato chi, come il ministro Passera, ha suggerito la proposta dello stralcio, che alla fine non è stato accettato per il semplice motivo secondo cui poi l’articolo 18 non sarebbe stato mai più modificato. La scelta, dunque, di Mario Monti di non procedere a nessuno stralcio è stata positiva ma il guaio è che l’articolo 18 così come è stato formulato scontenta sia il Pd che il Pdl e sicuramente una buona parte di Confindustria, comunque una parte dei sindacati, notoriamente la Cgil. Vediamo cosa diceva e cosa dice adesso l’articolo 18. Finora l’articolo 18 diceva che a parte i licenziamenti per giusta causa, per quelli non riconosciuti tali il lavoratore era reintegrato nel posto di lavoro e nelle sue funzioni. Ora, invece, consta di tre casi. Ci sono i licenziamenti cosiddetti discriminatori, quelli per intenderci fatti per appartenenza politica, religiosa, sindacale, o quelli fatti in concomitanza con il matrimonio oppure dall’inizio della gravidanza fino al compimento di un anno di età del bambino oppure, ancora, dalla domanda di fruizione del congedo parentale e per malattia del bambino. Ebbene questi licenziamenti sono considerati nulli dal giudice – anche per le aziende con meno di 15 dipendenti – che ordina la reintegrazione e il pagamento dei contributi e il risarcimento del danno.
Ci sono poi i licenziamenti cosiddetti per motivi disciplinari, quelli per giusta causa (comportamento grave che non consente la prosecuzione del rapporto di lavoro, come i furti o le risse, o l’inadempimento degli obblighi contrattuali, leggasi fannulloni). Qui il governo ha cambiato rispetto a prima. Qualora, però, il giudice non ravvisi la validità dei motivi (disciplinari) addotti, il datore di lavoro, per le aziende sopra i 15 dipendenti, sarà condannato a pagare tra 15 e 27 mensilità. Il reintegro è previsto solo se il fatto contestato al licenziato non dovesse corrispondere a verità: in questi casi ci sarà anche il risarcimento. Infine, il terzo caso, quello dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, quelli cosiddetti economici (sempre per le aziende sopra i 15 dipendenti): crisi dell’impresa, mansioni venute meno. In questi casi, se il giudice ritiene non valido e non vero il motivo, non ci sarà il reintegro, ma il pagamento tra 15 e 27 mensilità. Ciò detto, il Pd e la Cgil condannano il provvedimento perché faciliterebbe i licenziamenti; su questa lunghezza d’onda ci sono anche l’Idv e la Lega. Il Pdl lo condanna, ma solo in parte, perché i motivi disciplinari non riconoscibili sono talmente ampi che al giudice è dato ampio margine d’interpretazione per non riconoscerli, quindi il datore di lavoro dovrebbe pagare tra le 15 e le 27 mensilità a chi è riuscito a camuffare il comportamento sleale davanti al giudice. Un fatto è certo: se i motivi addotti dal datore di lavoro per il licenziamento è vero (disciplinare o economico) è chiaro che è più facile licenziare, ma, appunto, a giusta ragione, cosa che prima non succedeva. Dunque, l’articolo 18 è stato riformulato e comporterà cambiamenti, ma c’è chi teme in peggio e chi non proprio in meglio. Il presidente Napolitano ha spinto per la riforma, si tratta di sapere se il Parlamento sarà in grado di assicurare una buona riforma o se, invece, prevarrà il potere di veto dei sindacati e sarà una riforma annacquata al punto che non è più una riforma vera, come è successo per le liberalizzazioni.
Un’altra cosa è certa: queste nuove norme, ammesso che saranno approvate, non varranno per i lavoratori della pubblica amministrazione, dove è più diffuso il comportamento scorretto (assenze, ritardi, antici, scarsa produttività, eccetera). Le altre norme che compongono le regole dell’intero mosaico del mercato del lavoro sono da tutti, o quasi, giudicate positive Vorremmo sbagliarci, ma la denuncia degli economisti Giavazzi e Alesina, secondo cui la spinta propulsiva di Monti si sarebbe esaurita con la riforma delle pensioni, non è affatto priva di fondamento.