Il governo e i tre partiti della maggioranza hanno trovato un’intesa sulle modifiche del testo di riforma del mercato del lavoro, ma ci sono dubbi
Il governo e i rappresentanti dei tre partiti di maggioranza hanno raggiunto un’intesa sulla riforma del mercato del lavoro e in particolare sull’articolo 18, che il Pd e i sindacati, in particolare la Cgil, non hanno accettato, anzi, hanno avversato con forza, al punto che hanno programmato una serie di manifestazioni di piazza e una serie di scioperi, compreso quello generale. L’intesa punta sulla flessibilità in ingresso ma annacqua ulteriormente l’articolo 18, in particolare si reintroduce il reintegro qualora i motivi economici in caso di licenziamento non dovessero essere dal giudice ritenuti validi. L’altro punto, a compensazione del cedimento sul reintegro, è che le mensilità dovute in caso di licenziamento e in alternativa al reintegro, ma solo per la giusta causa, non sono più da un minimo di 15 a un massimo di 27, ma da un minimo di 12 a un massimo di 24 mensilità. Ora, se venisse approvato così com’è il testo della riforma, i cambiamenti sarebbero pochi, perché, come sottolineava un lettore del Corriere della Sera in una lettera al giornale, in Italia l’assunzione e il licenziamento, in definitiva, vengono decise dalla magistratura, mentre questa dovrebbe essere solo l’ultima spiaggia. Si comprende come gl’investitori stranieri non vengano in Italia e si comprende come il mercato del lavoro sia stato per anni paralizzato (e continuerà ad esserlo) da una serie di vincoli che soffocano l’economia. I primi ad essere delusi dal testo di riforma sono gli economisti della Bocconi e editorialisti del Corriere della Sera, Alberto Alesina e Andrea Ichino, i quali, in un articolo all’indomani dell’intesa, scrivono: “Ci sono riforme che se fatte a metà sono comunque un utile passo avanti. Ce ne sono altre che, invece, se fatte a metà peggiorano la situazione e sarebbe meglio non iniziarle nemmeno. La riforma del mercato del lavoro di cui si sta discutendo appartiene a questa seconda categoria”. I due economisti non sono i soli a criticare l’intesa sulle modifiche apportate.
E’ sceso in campo anche il Wall Street Journal e il Financial Times, i quali hanno apertamente criticato la riforma parlando di “resa”. In sostanza, meglio non farla che farla così. Critica è stata la Confindustria che ha parlato di “peggioramento” della situazione, nel senso che per altri vent’anni si dovrebbe convivere con una legge che non cambia nulla rispetto a quella che è rimasta in vigore per 40 anni e che tante storture ha creato. A difendere la riforma sono rimasti in pochi. Il presidente del Consiglio, innanzitutto, non perché la ritenga migliore della prima bozza, ma solo perché la ritiene un punto di equilibrio dell’accordo con i partiti. In sostanza, il Pd gli aveva intimato lo sfratto qualora non ci fossero state modifiche e Monti ha premuto su Alfano chiedendogli di cedere ricevendo in cambio alcuni ritocchi sulla flessibilità in entrata. A Casini non ha chiesto nulla in quanto il leader dell’Udc fa ormai solo quello che dice Monti. Alla fine l’intesa c’è stata, ma non si sa se terrà in Parlamento, perché una buona parte del Pdl è contraria alle modifiche che hanno solo lo scopo di togliere le castagne dal fuoco al Pd. Si va delineando anche la prospettiva che si aprirà con la fine della legislatura. Ne ha parlato Mario Monti in occasione di incontri internazionali, ma il concetto è stato ribadito anche in successive interviste. Monti ritiene che dopo la fine della legislatura e quindi del termine del mandato del governo tecnico, si dovrebbe aprire una nuova fase tutta politica, caratterizzata da un governo di larghe intese, cioè un governo di unità nazionale per assicurare la governabilità, l’intesa sui programmi e la pacificazione nazionale. Di solito, quando si parla di unità nazionale si parla anche di emergenza. Già, perché l’emergenza non solo non è terminata, ma è sempre attuale, dunque un governo che metta da parte le polemiche ideologiche, personali e pregiudiziali e che coinvolga in maniera diretta le maggiori forze politiche e quelle che ci staranno. Il primo ad arrivare alle stesse conclusioni, sia in colloqui di partito, sia come riflessione pubblica, è stato Berlusconi, ormai fuori dalla lotta politica (ha chi gliel’ha prospettata ha risposto che non gl’interessano né la presidenza della Repubblica, né un nuovo incarico da premier), ma l’idea non sembra essere stata rifiutata dal Pd con la stessa veemenza del passato. Chi, pur senza dirlo, la rifiuta, e per ovvie ragioni, sono i partiti minori. Ad esempio Fli, che non potrebbe stare all’opposizione se no spezzerebbe l’accordo con l’Udc, ma accettandola avrebbe forti chance di scomparire; la stessa Udc, che non potrebbe collocarsi all’opposizione dopo aver sostenuto la necessità delle larghe intese, ma nello stesso tempo avrebbe poco spazio in quanto la parte del leone la farebbero il Pdl e il Pd. L’Idv e il Sel la rifiutano per principio, prigioniera, l’Idv, del massimalismo e del giustizialismo che la contraddistinguono, il Sel, perché incompatibile con la destra. La prospettiva, comunque, è destinata sicuramente a fare strada.