di Antonio Ravi Monica
I difetti di pagine mal scritte possono essere ingigantiti dalla strada ferrata o risultare indigesti nella traversata di un braccio di mare. Uno dei libri che rende invece un viaggio più breve del previsto e lascia il lettore avvinghiato ai braccioli di uno scompartimento, è la raccolta di elzeviri dello scrittore zurighese Hugo Loetscher, Se Dio fosse svizzero. Temi dominanti della raccolta sono i vari aspetti dell’elveticità, scandagliati con piglio giornalistico e commentati con l’umorismo tagliente di chi ama il proprio paese, come emerge dalla rivisitazione della favola dei fratelli Grimm, La saggia Else: “Si deve parlare di lacrime svizzere perché noi, in mancanza di un’effettiva disgrazia, amiamo figurarcene una possibile”. In un altro articolo, s’irride la consegna delle chiavi della lavanderia al vicino di casa, quando si è angustiati dal timore di non aver adempiuto del tutto agli oneri che il proprio turno di bucato comporta: “Nel caso della chiave della lavanderia ci si trova al cospetto di un tratto fondamentale del comportamento elvetico… Sul filo, infatti, non vengono stese camicie da uomo o da donna, calze e mutande. Vengono piuttosto issati i vessilli della pulizia e della precisione”.
Basterebbero i titoli di alcuni capitoli a dare l’idea della vena scoppiettante e godibile del libro: L’ottavo peccato capitale, Vietato l’accesso ai gangster, Rinvio dell’escursione militare; quest’ultimo a tratti sarcastico: “Escursione militare in Israele rinviata a causa della guerra”. Ricorrenti sono le considerazioni sul plurilinguismo elvetico e sull’uso dello svizzero tedesco: “Quanto al tedesco, da anni subisce una tranquilla invasione da parte del dialetto”. Le parole dell’autore non vanno fraintese con quelle di un linguista pedante e parruccone, in piena crociata contro le contaminazioni dialettali di una lingua, anzi: “I sostenitori del dialetto distruggono quella stessa specificità che intendono preservare. Perché la specificità, se esiste, consiste nel fatto che, grazie al dialetto e al tedesco letterario, si è bilingui all’interno della propria lingua”. Lo svizzero tedesco torna in Il lavoro e la gioia, in cui Loetscher illustra le quaranta espressioni che il dialetto zurighese possiede per indicare l’attività lavorativa (lavorare con indifferenza, lavorare con precisione, sgobbare, etc.), rimarcando l’assenza di “un termine per dire lavorare in bellezza” e sottolineando che a fronte dei quaranta per “lavorare”, si possiede un solo termine dialettale per esprimere “provar gioia” (fröie). La prosa di Loetscher scorre leggera, intrisa di sapida ironia, senza cappe e spade, senza cadere mai in giudizi censori o moralismi, toccando con arguzia, pagina dopo pagina, diversi aspetti del mondo rossocrociato e portando il lettore a divorare il libro d’un fiato. Non solo in viaggio.