Il verdetto di secondo grado ribalta completamente quello di primo grado, quando l’ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, uccisa con 29 coltellate nell’ufficio di Via Poma 2, fu condannato a 24 anni
C’è qualcosa che non va nella giustizia italiana, non lo abbiamo detto solo noi, lo dice adesso anche Paola Cesaroni, la sorella di Simonetta, 20 anni, uccisa nel pomeriggio del 7 agosto del 1990, nell’ufficio dove lavorava a Roma, in Via Poma numero 2, tristemente noto come “delitto di Via Poma”. Se un tribunale condanna in primo grado una persona a 24 anni (sentenza di primo grado emessa nel gennaio del 2011 a carico di Raniero Busco, l’allora fidanzato di Simonetta) e un secondo tribunale lo assolve perché “il fatto non sussiste” (sentenza di secondo grado emessa la settimana scorsa, il 27 aprile), allora vuol dire che la giustizia fa acqua da tutte le parti.
Non è la prima volta che ciò accade, è successo numerose volte in processi diversi, l’ultimo è stato quello a carico di Amanda knox e Raffaele Sollecito, condannati in primo grado a 26 e a 25 anni e poi assolti in secondo grado, in seguito ad una perizia più approfondita. Solo che nel caso di Meredith Kercher un colpevole c’è, condannato dopo tre gradi di giudizio, nel caso di Simonetta, dopo 22 anni, non si sa chi l’abbia ammazzata, perché solo una certezza esiste, e non c’è bisogno di un tribunale per confermarla, ed è che la povera ragazza fu uccisa. Da chi, da ieri, ufficialmente non si sa. C’è una massima che dice: “Non esistono delitti perfetti, esistono solo indagini imperfette”: è il caso del delitto di Via Poma. Simonetta Cesaroni era viva alla cinque e mezzo di quel pomeriggio del 7 agosto 1990, perché a quell’ora fece l’ultima telefonata. Dopo quell’ora, qualcosa successe nell’ufficio dove lavorava, qualcuno la uccise con 29 coltellate, di cui tre soltanto letali, forse in un tentativo di stupro non riuscito. Fatto sta che nella notte gli agenti trovarono nel ripostiglio dell’ufficio stracci intrisi di sangue della vittima. Secondo gl’inquirenti, l’intenzione dell’assassino era di ripulire l’ufficio delle tracce del delitto per poi portare via il corpo e gli stracci in un secondo momento, per eliminare Via Poma come luogo in cui avvenne l’omicidio. Le indagini portarono al portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, ma fu scagionato; il secondo sospettato fu Federico Valle, nipote di Cesare Valle, decano degli architetti di Roma, che abitava nell’attico del palazzo, ospite del nonno. Federico Valle fu accusato da un austriaco, Roland Voller, che aveva una relazione con la madre. Anche lui, alla fine, in seguito alla prova del Dna, fu scagionato: il sangue trovato sulla maniglia della porta dell’ufficio non era suo.
Qualche anno fa, le indagini presero un’altra piega, in seguito a testimonianze e a prove ritenute valide: ad essere accusato fu l’ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, oggi 43enne. Lo inchiodò una traccia della saliva sugli indumenti di Simonetta, traccia che apparteneva a Raniero Busco; un’altra prova fu il morso sul seno sinistro della vittima, morso compatibile con la sua arcata dentaria inferiore. A pesare su di lui fu il tipo di rapporto tra i due: Simonetta lo amava e lui no, almeno secondo le lettere lasciate dalla ragazza. Raniero Busco, che si è sempre dichiarato innocente, nel gennaio dell’anno scorso fu condannato, come detto, a 24 anni per omicidio. Da tener presente che alla vigilia della convocazione in tribunale come testimone, l’ormai ex portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, rientrato nel frattempo in Puglia, si suicidò, dopo aver lasciato scritto di suo pugno sul cruscotto della sua auto la frase seguente: “20 anni di martirio senza colpe”, con la variante “20 anni perseguitati senza colpa”. La domanda è: copriva qualcuno? Ed ora la sentenza della settimana scorsa che ribalta completamente il verdetto dell’anno scorso: La nuova perizia ha affermato che il Dna sul reggiseno e sul corpetto può essere riferibile anche ad altre persone. Inoltre, che può essersi trattato non di un morso ma di due escoriazioni, mentre l’arcata dentaria superiore non è possibile rilevarla con certezza, quindi non riferibile scientificamente a Busco. Ancora: le tracce di sangue nell’appartamento di Via Poma – ai lati della porta, sullo specchio dell’ascensore, sul telefono e su uno straccio – non sono di Raniero Busco. Dunque, l’ex fidanzato non è il colpevole. La parte civile, cioè i familiari di Simonetta, rispettano la sentenza, ma notano l’enormità tra l’esito di primo e quello di secondo grado e soprattutto lamentano il fatto che non ci sia stato confronto tra i vari periti, autori delle diverse perizie. Fra 90 giorni le motivazioni della sentenza, lette le quali, probabilmente la procura farà appello in Cassazione, la quale potrà adottare due scelte: o confermare il giudizio di secondo grado (l’assoluzione di Busco) o cancellare il verdetto di secondo grado e chiedere un nuovo processo con altri giudici. Il reato, comunque, non si prescrive, per cui le indagini possono ancora continuare, magari con un colpo di scena sempre possibile, anche se improbabile.