La vicenda dei due marò in India si complica: la polizia del Kerala li accusa di omicidio volontario, di tentato omicidio, di condotta dannosa e di associazione per delinquere
Molti – e noi con loro – si erano illusi che la vicenda dei marò si sarebbe risolta presto. Cosa lo faceva pensare? Almeno quattro ragioni molto solide. La prima è che i familiari dei due pescatori uccisi avrebbero ritirato la denuncia, come è avvenuto, presumiamo, in quanto l’Italia, su suggerimento dei loro avvocati, ma con iniziativa autonoma, come il Sottosegretario Steffan De Mistura ha sempre affermato, aveva loro risarcito il danno (circa 150 mila euro ciascuno), malgrado i due marò si dicano sicuri che non sono stati loro ad ucciderli. La seconda ragione è che non ci sono prove che siano stati i due italiani a colpirli. Finora le prove non sono state esibite e durante la verifica balistica e altre analisi la difesa non è stata ammessa. Una volta formalizzate le accuse, negli atti sono elencate 46 “prove” materiali e 126 documenti e le testimonianze di 60 testimoni. Tutte carte che ora gli avvocati dei due soldati devono esaminare per poter rispondere alle accuse. Secondo il racconto del capitano della nave, la barca che si stava avvicinando alla Enrica Lexie, ricevette segnali di allontanarsi. Solo quando arrivò a un centinaio di metri dalla petroliera italiana i marò italiani, visto che gli uomini della barca non obbedivano agli ordini di allontanarsi e scambiatili per pirati, spararono. Però, se è vero che spararono – e nessuno mai lo ha negato – lo fecero in acqua. Solo allora l’imbarcazione indiana fece dietro front e si allontanò. Come si sa, la Enrica Lexie fu attirata al porto con un inganno. Fu chiesto al capitano della Lexie di entrare nel porto di Kochi per una testimonianza – due barche con dei possibili pirati a bordo – dopo di che, una volta entrata nel porto, fu sequestrata con l’accusa che a sparare a due pescatori uccidendoli fossero stati i marò. La terza ragione è che la Lexie si trovava nelle acque territoriali, di qui la richiesta della capitaneria di porto alla nave italiana. Ma se questo è vero, come è vero in quanto riconosciuto anche dalla Suprema Corte di New Delhi, anche se ad uccidere fossero stati i soldati italiani, ebbene costoro andrebbero giudicati dal Paese di provenienza. La quarta ragione è che i magistrati dello Stato del Kerala, tre giorni prima della scadenza della carcerazione preventiva, hanno formulato le accuse facendole corrispondere a quel grado di gravità che permette di rifiutare la scarcerazione. Le accuse, infatti, sono pesanti: vanno dall’omicidio volontario al tentatoi omicidio per chi su quell’imbarcazione non è stato ammazzato, dalla condotta dannosa all’associazione a delinquere. Sono soprattutto la prima e l’ultima accusa quelle che hanno fatto irritare la Farnesina, perché si tratta di uno schiaffo all’Italia. Accusare i militari italiani che si trovano su una nave per difenderla dagli attacchi dei pirati, secondo le precise disposizioni dell’Unione europea, equivale a trattare il Paese come un’associazione per delinquere, il che è francamente troppo anche per i nostri “tecnici” del governo, i quali hanno reagito richiamando l’ambasciatore a Roma per “consultazioni”.
Questa misura, nel linguaggio diplomatico, ha la funzione di mandare un messaggio, in questo caso, all’India: quello dell’irritazione per come sta evolvendo il contenzioso. Secondo le autorità italiane, ammesso anche che i due siano stati gli autori materiali della tragedia accaduta ai due pescatori, in base agli accordi internazionali, quando un reato viene commesso in acque internazionali, la competenza giudiziaria spetta al Paese da cui provengono i presunti autori. Dunque, in Italia. Di questo, in un parere alla Corte Suprema di Nuova Delhi sembra essere ben consapevole il governo indiano, ma evidentemente ci sono conflitti di competenza tra lo Stato del Kerala e la Stato centrale.
Richiamando l’ambasciatore a Roma, il significato è che l’Italia pone un problema politico al governo dell’India e toccherà ad esso risolverlo. E il problema è chi, in base ai trattati internazionali, deve giudicare i marò, se l’India o l’Italia. La Suprema Corte del Kerala, al momento, è in vacanza; quella di New Delhi dovrà pronunciarsi il 26 luglio.