Carissimo Angelo, vorrei parlarti come se tu fossi ancora qui tra noi. Come quaranta anni fa agli albori della nostra conoscenza. Del primo impatto. Del tuo apparire mentre io suonavo a quell’uscio oltre il quale un gruppo pensante tesseva ogni giorno il panno su cui è incisa tanta parte della storia partecipativa e democratica italiana nella terra degli elvezi. Apparve quel viso di eterno ragazzo, abbigliato un po’ così, eternamente spettinato e con i riccioli al vento, come ad esprimere una ribellione ed una scelta di vita. Già: una scelta di vita. Fu amicizia immediata, improvvisa, tra due strani personaggi, tanto dissimili quanto vicini, nelle origini e nella scelta di vita. Il ragazzo di Calabria che anelava, forse, salire sul colle più alto della Sila per scrutare l’infinito dei due mari e quello nato tra le rocce della Valle alla strenua ricerca di scoprire tutto quanto di arcano stava al di là del suo monte. Abbiamo vissuto assieme, militando in quella grande forza popolare e democratica protagonista del riscatto dell’Italia dalla vergogna del fascismo, e del suo rinascimento nei tanti decenni successivi. Abbiamo vissuto assieme da umili gocce nell’oceano dei giusti, orgogliosi, tuttavia, di dare la miseria del nostro sapere alla costruzione di quella utopia a cui tutti noi ci abbeveravamo. Ecco ove stava il mistero del Pci. Di quel movimento imponente di popolo a cui si aggrappavano, come l’edera al muro maestro, le tante speranze degli umili e degli oppressi, fra i quali, i cuori generosi degli emigrati italiani, qua a Zurigo, in Europa e nel mondo. Dentro quel multiforme pensatoio ognuno di noi ha cercato di dare il meglio di sé. Angelo era severo con se stesso. Leale e critico verso le compagne, i compagni con cui si confrontava nell’impegno diuturno. Abbiamo vissuto assieme la tragedia della disfatta politica di quello straordinario patrimonio popolare. Le nostre strade si divisero tra chi prendeva atto di quella disfatta e chi rimase aggrappato al sogno infranto. Noi, Angelo, continuammo, da allora e per sempre, a chiamarci compagni. Ricordi certamente la ricorrenza, drammatica e maestosa del 1984: la scomparsa del compagno più amato, Enrico Berlinguer. La nostra disperazione, il nostro pianto. La terribile vicenda di Guido Rossa, un operaio, un lavoratore che lottava in fabbrica per i diritti universali, vittima del terrorismo assassino che insanguinò per un decennio le strade e le piazze dell’Italia democratica. Il 16 marzo di Aldo Moro, lo statista che pagò con la vita l’apertura all’incontro con il popolo della sinistra. Ci giurammo allora di salutare chi di noi per primo se ne sarebbe andato nell’universo dei più. E tu a dirmi scherzosamente: se sarai tu, non esagerare. Aggiungesti poi, a me basterebbe un misero ciao. Sì, caro Angelo, basterebbe un piccolo ciao. Ma se in quel ciao fosse possibile racchiudere i sentimenti, le passioni, i sogni, le delusioni e le speranze, il seme creativo del contadino buttato là affinché rinnovi il miracolo della vita che nasce. Un ciao ove arde il fuoco che ha spinto tanti come te a vincere le paure per guardare agli emigrati figli di due Patrie. Sì, due Patrie, perché accanto al suolo natio che tu abbandonasti per sfuggire ad un destino cinico e baro, sta la Patria di Maria Angeles Cuerto, la compagna che cambiò la tua vita, il destino del ragazzo venuto da un sud povero e ingrato. Angelo e Maria Angeles, sempre uniti, uno accanto all’altra, sia che si trattasse di scendere in lotta per schiacciare il drago xenofobo e razzista che per costruire l’unità del mondo del lavoro, la solidarietà e la convivenza tra i cittadini elvetici e i tanti popoli venuti quassù a cercare la via del riscatto. Uniti, l’una accanto all’altro, per affermare il culturao meravigliao dei popoli che hanno fatto della Svizzera la terra che ha cercato il seme antico per realizzare le pari dignità delle diversità. Uniti, l’uno accanto all’altra, nei momenti in cui la Patria della tua compagna, (la Spagna) immiserita dalla barbarie del totalitarismo, anelava a ritrovare la luce della libertà e del protagonismo tra i popoli e le nazioni. Uniti, l’uno accanto all’altra, assieme per la città ad innalzare le gloriose bandiere del lavoro in quei primi maggio in cui i riccioli biondi come pannocchie al sole di Victor e Dino, i figli tanto amati, erano splen-dida realtà di un mistero che rinnova nel tempo la gioia ed il dolore. E com’era triste quest’ultimo primo maggio nel non vederti con l’inseparabile borsone colmo di tutti gli appelli di questo mondo ingrato. Sapevo il perché. Eppure, inconsapevolmente, ti cercavo, ma invano. La vita, in fondo, cos’è se non come il sublime canto di Salvatore Quasimodo: Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera. Caro Angelo quando uno se ne và, tutto è finito, certo. Rimangono i ricordi, gli esempi, le battaglie, le lotte e gli amori, le speranze che hai saputo far sorgere dall’animo di ognuno. Rimangono i tuoi cari, Maria Angeles, Victor e Dino, i fratelli , la sorella, ogni parente vicino e lontano, per cui abbruno il mio animo assieme alle comuni bandiere. Rimane tutto quanto hai costruito, di buono e di vero, nel corso di una vita. Tu mi dicesti, non molto tempo fa, parlando delle carrette portatrici di morte tra le due sponde del mare, che il destino per quegli immigrati era stato ancora più triste, bestiale. Noi portavamo un ricordo, una foto ingiallita, una valigia di cartone. Loro nulla, nemmeno la speranza per i sopravvissuti di poter un giorno piangere sulla tomba dei loro cari. A egregie cose il forte animo accendono l’urne de’ forti, disse e scrisse per i posteri il grande poeta (Ugo Foscolo). Più modestamente io ti imploro: Riposa tranquillo, Angelo Tinari, te lo sei meritato. Così disse ai suoi cari, Alcide Cervi, il padre dei sette martiri antifascisti, nell’ora del congedo: Addio, vi lascio un buon nome. Ciao e addio, Angelo Tinari, come tu volevi. La terra ti sia lieve.