Cosa tormenta una madre a tal punto da uccidere il proprio figlio? Chi sono le mamme assassine e come sopravvivono ad un gesto talmente estremo? Fabrizio Catani affronta il delicato tema dell’infanticidio
“Non sapevo quello che facevo” dice una di loro, una delle quattro mamme che Fabrizio Cattani decide di raccontare nel suo ultimo lungometraggio “Maternità Blues”. È un gesto così estremo, inconcepibile e talmente doloroso che non si riesce a coglierne la natura. Neanche le mamme assassine riescono a spiegarselo. Uccidere il proprio bambino è peggio che uccidere se stessi, perché si sopravvive ad un dolore terribile che non passa mai, ma si rinnova nel tempo, ci si appesantisce e quasi si soffoca dal peso della colpa. Non c’è peggior punizione che sopravvivere ad un gesto simile e le mamme assassine lo sanno, la colpa se la sentono addosso perché non incolpano nessuno per quello che hanno fatto, a parte loro stesse. Maternity blues ci mostra in maniera appassionata e cruda il dolore di quattro donne, quattro mamme accomunate dal destino di essere le assassine dei propri figli. Non cerca di spiegare nulla, perché nulla è spiegabile davanti ad un gesto simile, ma le rende al pubblico così come sono donne sole, straziate dal dolore, incapaci di capire il loro gesto e incapaci di perdonarsi. Sono Rina, Vincenza ed Eloisa le mamme assassine che vivono da tempo nella stessa comunità a rappresentare alcuni archetipi della personalità femminile: quella ingenua, fragile e sognatrice, quella sensuale e ribelle, quella devota e saggia e infine arriva l’emotiva instabile e disillusa, Clara, la protagonista che chiude il cerchio. Quattro donne diverse che devono affrontare lo stesso dramma. Ogni giorno l’una rivive la sua tragedia nelle parole dell’altra, come eterna punizione per quello che hanno fatto. Si comprendono, si odiano, si danno coraggio, si ostacolano: per loro la vita è sempre uguale, senza sogni.
Clara arriva in comunità dopo aver annegato i due figli. Qui si avvicina e si confronta con le sue compagne di stanza e scopre che il dolore che prova non avrà mai fine. Frasi spezzate, risposte cercate e mai ottenute: una madre “dovrebbe” perché “una madre è una madre” e ha innato quel famoso istinto materno che pervade la donna quando diventa mamma, ma non è sempre così e le mamme assassine lo sanno, le donne non sono tutte uguali, loro sono diverse.
Fabrizio Cattani realizza una storia toccante che fa riflettere e ci fa vedere queste donne sotto un’ottica diversa. La società moderna, infatti, non riesce ad accettare e concepire un delitto tanto grave, ma si può comunque cercare di comprendere e guardare con occhi diversi colei che ha commesso questo atto atroce, che è la prima ad essere vittima delle sue azioni, colei che più di tutti soffrirà per le conseguenze del gesto e che dovrà convivere in eterno con il senso di colpa che le divorerà l’anima. Il film, presentato in Controcampo Italiano all’ultima Mostra di Venezia e ora nelle sale italiane con Fandango, è tratto dalla pièce teatrale “From Medea” di Grazia Versani. Non vi è nessuno sguardo critico nei confronti delle mamme assassine, non le giudica, né cerca di capire le motivazioni che hanno spinto queste moderne medee a commettere l’insano gesto, ma vuole rivelare quello che hanno dentro, quello che le tormenta. Viene così fuori, un senso di solitudine e di inadeguatezza che accomuna queste donne e che le porta verso quella depressione post parto che spesso è difficile da cogliere, come per il marito di Clara, che si tormenta perché non ha percepito il disagio della moglie. La ricerca d’amore è un altro fattore che accomuna queste donne, come per esempio per Eloisa, alla continua ricerca di attenzioni e d’amore dal suo Max che però non ricambia come lei vorrebbe. La disperazione, la solitudine di una donna abbandonata con il peso delle responsabilità, il sentirsi trascurata e non desiderata dal marito, sono altri fattori che intervengono, la stanchezza e la disperazione di Vincenza tradita dal marito con tre figli piccoli per una donna più giovane. Il senso di inadeguatezza, il non sentirsi all’altezza delle aspettative, i sogni infranti di Rita che, sedotta e abbandonata troppo giovane, non viene neanche sostenuta dai genitori. E infine Clara che si ritrova sola e oppressa dal senso di disagio nel suo ruolo di mamma con il marito sempre lontano per lavoro e la madre che sottovaluta le domande della figlia e non ne intuisce la richiesta di aiuto celata. È un film che lascia il segno: alla fine non ci interessa più sapere il motivo del loro gesto, ma ci aiuta, invece, a considerare in maniera differente queste donne e la loro triste storia.