Conversazioni tra Mancino e il consigliere giuridico del Quirinale intercettate e pubblicate sui giornali senza che abbiano alcun profilo penale
Questa volta le intercettazioni abusive e la loro pubblicazione altrettanto abusiva sui giornali non riguardano Berlusconi, ma il Capo dello Stato. Il quale ha reagito con durezza, mettendo l’accento sul fatto che tutto è stato fatto alla luce del sole, che non c’è ombra di reato nello scambio di telefonate tra l’ex vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura (Csm), accusato dai pm palermitani, tra cui Antonio Ingroia, di falsa testimonianza a proposito della trattativa che sarebbe intercorsa nel 1992 tra pezzi dello Stato e la mafia per alleggerire il carcere duro e per far cessare gli attentati, e il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D’Ambrosio.
I fatti. Tra i due sono intercorse alcune telefonate, in cui, sostanzialmente Nicola Mancino chiede di essere aiutato perché l’accusa di falsa testimonianza nei suoi confronti non l’accetta. Dice, inoltre, che di temere le testimonianze di altri personaggi che allora ricoprivano cariche istituzionali importanti nelle parti dove c’è discordanza con ciò che lui ricorda. In particolare, teme di apparire reticente, mentre la verità è che non della trattativa non sapeva nulla. In un primo momento il Quirinale ha negato sia telefonate che pressioni esercitate in nome e per conto di altri, poi, quando le intercettazioni effettuate dalla magistratura sono state pubblicate, è successa la polemica reazione del Capo dello Stato, il quale ha accusato i magistrati, pur senza citarli, di aver “costruito sospetti sul nulla”.
Siamo al problema che in Italia Berlusconi non è mai riuscito a risolvere: quello delle intercettazioni che non contengono nulla di rilevante dal punto di vista penale ma che escono dagli uffici della procura quando non dovrebbero uscire, calpestando il segreto d’ufficio, e arrivano ai giornali, quando non dovrebbero arrivarvi danneggiando persone che non hanno commesso nessun reato. A prendere le difese del Capo dello Stato è soprattutto Casini, il quale ha dichiarato: “In questo momento stanno succedendo cose gravi e siccome a pensare male si fa peccato ma ci si azzecca, dico che non vorrei che quest’attacco fosse determinato da chi si sente minacciato nei privilegi di casta; o che pensa di avere il monopolio su alcuni poteri dello Stato rispetto ad un uomo che garantisce il rispetto dell’equilibrio tra i poteri”. Casino quindi chiede di “aprire un’indagine per capire come queste intercettazioni siano potute finire sui giornali”.
Su questo tema, in realtà, sono intervenuti tutti. E’ intervenuto il presidente del Senato, Renato Schifani, difendendo a spada tratta Napolitano. Sono intervenuti Maurizio Gasparri, capogruppo Pdl al Senato, e lo stesso Angelino Alfano, i quali hanno difeso Napolitano dagli attacchi ignobili provenienti da settori della magistratura militante. Gasparri, tra l’altro, ha ricordato che all’epoca dei fatti, cioè della presunta trattativa, nel 1992-93, presidente della Repubblica era non Napolitano, ma Oscar Luigi Scalfaro. E’ intervenuto Pier Luigi Bersani, seppure con ritardo, sottolineando che Napolitano è “uno dei pochi presidi di questa democrazia”. Soprattutto, è intervenuto Di Pietro, molto a sproposito, come è ormai suo solito, attaccando il Capo dello Stato e chiedendo chiarezza sul comportamento di alcuni suoi uomini (Loris D’Ambrosio, ndr) sul caso Mancino, adombrando favoreggiamenti. Di Pietro chiede una Commissione d’inchiesta e paventa che tutto si risolva con una legge che vieti le intercettazioni. Inutile aggiungere che da una parte intervengono alcuni esponenti del Pdl (Angelino Alfano e Fabrizio Cicchitto) che fanno dell’ironia su Casini, parlando di “lacrime di coccodrillo” di quest’ultimo a proposito della legge, necessaria, sul regolamento delle intercettazioni. In sostanza, dicono, quando era il Pdl a sollecitarla fu risposto che non era necessaria, ora che l’accusato è il Capo dello Stato, si è compreso l’uso strumentale che certa magistratura fa delle intercettazioni e soprattutto del loro uso. Dall’altra, intervengono esponenti del Pd che, in sintesi, a proposito di Di Pietro dicono che la misura è colma. Bersani, che da mesi lo invitava a non tirare troppo la corda con gli attacchi rivolti al Pd, ora dice che “la corda è rotta”. In sostanza, e non lo dice solo Bersani che non ha avuto mai troppa simpatia per l’ex pm, ma anche gli esponenti più ben disposti verso Di Pietro, come la cattolica Rosi Bindi e il dalemiano Nicola Latorre, la foto di Vasto, che ritraeva Bersani, Vendola e Di Pietro, ovvero i tre esponenti di un’alleanza di centrosinistra nel 2013, perde un pezzo, Di Pietro, appunto, ritenuto incompatibile con un progetto che non potrebbe mai essere realizzato da una scheggia impazzita nella rincorsa al grillismo e all’antipolitica.
Quanto alla trattativa mafia-Stato e all’accusa di falsa testimonianza a Nicola Mancino, va detto che uno dei pm che hanno formulato l’accusa a Mancino e che hanno finora seguito le indagini, Paolo Guido, non ha firmato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. Motivo: le “rivelazioni” a rate del pentito Giovanni Brusca, colui che sciolse nell’acido il piccolo Matteo. Se l’inchiesta non è costruita sul nulla, certamente è costruita sotto la spinta di certi pentiti che fanno rivelazioni un po’ troppo interessate, secondo lo stesso giudizio del pm Guido.