Il dramma a Foggia, maturato in un clima di rancore e di gelosia in seguito alla separazione tra la figlia e il suo uomo
Ancora una storia di ordinaria follia, accaduta a Foggia, a causa di liti familiari e, probabilmente, di gelosia, a dimostrazione di come la vita delle famiglie cosiddette normali possa essere sconvolta da sentimenti nascosti, repressi per anni e che poi esplodono facendo passare i protagonisti da gente normale a mostri. L’unico fatto positivo di questa vicenda è che non c’è solo una vittima (insieme ad altre, indirettamente) ma c’è anche il colpevole. La vittima è un uomo di 42 anni, Giovanni Battista Buono, l’assassina è Lucia La Lumera, 53 anni, suocera, cioè ex suocera dell’uomo. Il quale aveva sposato la figlia nel 2006 ma ben presto le rose e i fiori si trasformano in spine e veleni. I due si separano e il giudice attribuisce il figlio in affidamento congiunto, nella villetta dove la madre è andata a vivere con i suoi genitori. Il padre può andare a vedere il figlio tre volte alla settimana e portarselo a casa sua nel fine settimana. Questi i fatti nudi e crudi.
Tutto il resto è una confessione, quella della donna che un giorno di giugno sa che il genero sarebbe andato a bussare alla sua porta di casa per vedere il figlio e lo accoglie con una pistola in mano che scarica sull’uomo, senza alcuna pietà. La pistola è quella del marito, un impiegato comunale che la teneva regolarmente dichiarata e che, al lavoro nel momento della tragedia, era completamente ignaro di quello che la moglie avrebbe fatto. La donna, d’altra parte, non aveva mai maneggiato un’arma, quindi non sapeva usarla. Aveva però premeditato da tempo l’epilogo di quei rapporti e per non sbagliare mira si era andata ad esercitare in campagna e, per aggiustare la mira, si era esercitata nel pollaio.
Ed ora vediamo la confessione della donna, che, oltre a raccontare nei minimi dettagli la cronaca dei fatti, contiene anche la chiave d’interpretazione della tragedia. Lucia La Lumera, dopo aver freddato il genero, ha cercato di far fuori anche il consuocero, accorso al rumore degli spari, ma l’ha mancato. Si può immaginare il trambusto che ne è seguito, fino all’arrivo dei carabinieri, all’arresto della donna e, appunto, alla sua confessione, completa e precisa, davanti al magistrato. “Sì”, ha detto, “ho ucciso mio genero. Anche se ora andrò in carcere sono contenta: se lo meritava. Era un uomo cattivo e violento. Dovevo liberare la famiglia dalla presenza ossessiva di quell’uomo: l’ho fatto e lo rifarei. Non ne sono pentita e penso che non me ne pentirò mai”. I carabinieri hanno commentato l’accaduto dicendo che la rabbia e il rancore della donna nei confronti del genero erano cresciuti negli anni, insieme all’accusa da parte della donna secondo cui l’uomo aveva maltrattato la figlia portandola alla separazione e all’esasperazione.
Gl’inquirenti hanno anche in mano la dichiarazione del cugino della vittima, che si chiama come lui, il quale ha detto: “Avevamo lo stesso nome e ci volevamo bene come due fratelli. Secondo me, a spingere quella donna ad uccidere mio cugino è stata la gelosia. Non accettava che tra il padre e il figlio ci fosse un legame così forte nonostante si fosse separato dalla madre. In effetti, ogni volta che mio cugino andava a prendere il bambino era una festa: il piccolo era felice di stare con il padre e il bambino non voleva tornare dalla mamma e dai nonni materni. Si aggrappava al padre, piangeva e diceva: ‘Voglio restare sempre con te, papà’. Per questo la nonna materna, quando suo padre si presentava a casa sua e suonava alla porta per ritirare il bambino, trovava molte scuse e non voleva far uscire il piccolo. Per la suocera mio cugino era stato la causa della rovina della figlia, lo considerava l’origine di ogni male e, per questo, nella sua follia ha pensato che, liberandosi del genero, la famiglia sarebbe stata di nuovo serena”.
Rancore e gelosia, secondo il cugino della vittima, sono gl’ingredienti del delitto e forse è la stessa spiegazione che in fondo si trova anche nelle parole della donna, quando ammette di voler liberare la famiglia “dalla presenza ossessiva di quell’uomo”: rancore verso chi era ritenuto la causa della rovina della figlia e gelosia per quel rapporto sereno e gioioso tra padre e figlio che loro, in casa, non erano riusciti ad instaurare.