Il segretario del Pd vince con il 60,9% dei voti contro il 39% di Matteo Renzi che ora ha dichiarato che andrà a fare il sindaco di Firenze a tempo pieno
E’ finita come doveva finire e come era già chiarissimo al primo turno: Bersani ha vinto il ballottaggio con il 60,9 dei voti e Renzi ha perso con il 39%. Ci si permetta una nota di vanità: sono le stesse percentuali che noi avevamo indicato una settimana fa, mettendo semplicemente insieme i voti di Bersani e di Vendola da una parte e i voti di Renzi e di Tabacci dall’altra e calcolando una percentuale in meno di votanti.
Per il resto, le considerazioni politiche rimangono quelle già fatte una settimana fa in previsione della vittoria di Bersani.
Primo. Se queste primarie sono state vivaci e partecipate, lo si deve a Renzi, candidato davvero alternativo a Bersani e soprattutto innovativo, nel linguaggio e nelle proposte. L’ha detto lui stesso al termine della contesa elettorale: due idee diverse di partito, due tipi di proposte politiche, su ogni argomento c’erano visioni diverse, all’interno di un’ottica di centrosinistra. Tanto ideologico e scontato negli slogan e nelle alleanze Bersani, quanto moderno Renzi e la sua modernità consiste nell’affrontare senza paraocchi i problemi e nell’offrire soluzioni concrete, qui ed ora, non quelle di altri tempi.
La diversità consiste anche nell’autoironia (“Renzi ha finalmente fatto qualcosa di sinistra: ha perso”) ma anche in un atteggiamento allegro, spensierato, amichevole verso la politica e verso l’avversario, non solo riconoscendo di aver perso e che Bersani aveva vinto, ma nel modo come lo ha detto: “Ho perso io, non gli altri”. Oppure: “Oggi dobbiamo dire a noi stessi che la nostra idea non è stata vincente, noi abbiamo perso, anzi io ho perso”. Oppure, non solo l’ammissione della sconfitta sua e della vittoria di Bersani, ma le congratulazioni: “Era giusto provarci, è stato bello farlo insieme. Abbiamo provato a cambiare la politica, non ce l’abbiamo fatta. Ora dimostriamo che la politica non ha cambiato noi”. D’altra parte, la sera prima delle votazioni, al termine della campagna elettorale era stato lui a invitare Bersani a bere un caffè, non il contrario. Questo per dire dell’uomo nuovo che però nel Pd è stato soffocato – va detto – dalla democrazia.
Secondo. E’ già un miracolo che Renzi abbia raggiunto il 39%. Il Pd è sostanzialmente un partito che ha profonde radici nel Pci. Ad eccezione di pochi dirigenti provenienti dalla sinistra democristiana trapiantati nel Pd, ma, prima di Renzi, come corpo estraneo, tutti gli altri provengono dall’esperienza del Pci-Pds-Ds, la cui caratteristica è sempre stato l’odio per l’avversario considerato nemico e l’approccio ideologico ai problemi. Bersani è l’esponente del Pd che affonda le sue radici nella tradizione, quindi non poteva che vincere lui, altrimenti la sinistra sarebbe stata diversa. Con Bersani ha vinto, dunque, il partito dell’apparato che, in caso di vittoria di Renzi, si sarebbe staccato e avrebbe fondato un altro partito, perché Renzi veniva visto come “destra”, quindi da eliminare. Se questo non si è verificato, lo si deve solo alla spigliatezza e al suo spirito gioioso.
Terzo. E’ molto probabile che ora che ha perso e non è una minaccia alla poltrona di Rosi Bindi, di D’Alema e compagni, il giudizio possa mutare, arruolandolo tra le risorse. Probabilmente ciò si verificherà solo a parole, nei fatti sarà messo da parte, perché è chiaro che se Renzi non si lascerà strumentalizzare, vuol dire che rappresenta sempre un “pericolo” da tenere a bada.
Quarto. Il Pd, da moribondo che era, con le primarie, ma soprattutto con la personalità di Renzi, è tornato competitivo sul piano elettorale e quindi ha già in tasca la vittoria. Bersani, ora, forte dell’alleanza con Vendola, senza il quale probabilmente la sua vittoria sarebbe stata molto risicata, e forte del vento elettorale favorevole, grazie anche alla confusione e alla inconcludenza che regna nel centrodestra, farà di tutto per non cambiare la legge elettorale attuale, perché gli assegnerà il 55% dei seggi con il 30-35% dei voti. Se Bersani andrà alle elezioni con gli alleati di adesso (Vendola e Nencini), mostrerà coraggio perché c’è chiarezza e compatibilità programmatica. Se, come temiamo, imbarcherà anche un Di Pietro indebolito ma sempre giustizialista o comunque componenti della stessa pasta, come la formazione politica arancione di De Magistris, sostenuta da Antonio Ingroia, pm schierato politicamente, l’alleanza finirà per assomigliare alla vecchia Unione, con tutti i problemi di incompatibilità che un governo in tempi di crisi non si può permettere.
Cosa farà Casini con la prospettiva di Bersani candidato premier del centrosinistra, con o senza Di Pietro dentro? Negli ultimi tempi, il leader dell’Udc, insieme a Gianfranco Fini e a Montezemolo di Italia Futura, sta lavorando ad una lista per l’Italia con la prospettiva dichiarata di un secondo incarico a Mario Monti ed ha dichiarato anche che sta compiendo un percorso “diverso” rispetto al Pd che non considera affatto Monti come presidente del Consiglio della prossima legislatura. Le strade di Casini e di Bersani sembrano, insomma, dividersi, ma può essere solo un’illusione ottica. Nulla esclude che ad elezioni avvenute i voti della lista per l’Italia vadano a rafforzare il centrosinistra che in questo caso godrebbe di una larga maggioranza. Un accordo di legislatura con Monti presidente della Repubblica non sarebbe da scartare, anzi, a ben vedere, sarebbe l’unico modo per Casini e Fini di restare a galla e dare l’impressione di farlo di farlo per una giusta causa.