Lasciamo stare per un po’ la politica e le guerre e mettiamo sotto la lente d’ingrandimento ciò che sta succedendo in India dal 16 dicembre dell’anno appena trascorso. Non si tratta della vicenda dei due marò italiani, ma di un fatto di cronaca che ha toccato un nervo scoperto e a lungo anestetizzato della società indiana: il ruolo della donna e in modo particolare lo stupro come atto di “normalità”. Il fatto di cronaca, come è noto, riguarda la sorte subìta da una studentessa di 23 anni che, con il suo fidanzato, è salita su un autobus dove c’erano sei uomini, ubriachi e violenti, che hanno malmenato il fidanzato ed hanno stuprato la ragazza lanciandola dal finestrino dell’autobus in corsa. Operata in un ospedale di Nuova Delhi, è stata trasferita poi in un altro ospedale, a Singapore, ma dopo vari tentativi, è morta per le ferite riportate.
Questo il fatto di cronaca. Ed ora apriamo una finestra sul tema. Uno stupro in India non fa notizia, ce ne sono uno ogni 22 minuti, 26.200 circa all’anno. Questi grandi numeri vanno rapportati anche ai grandi numeri della popolazione, circa un miliardo di persone, però contano, anche perché la società tradizionale indiana è divisa in caste e la donna, come nelle società antiche del Medio Oriente, non ha voce in capitolo. Non conta né nella società, né nella famiglia. Uno stupro in India è considerato alla stessa stregua di quando in Italia e anche altrove nelle nostre società si faceva un fischio al passaggio di una bella donna. Non viene denunciato né dalle donne stesse, le vittime, né, ovviamente, dagli uomini, i carnefici; non viene, di fatto, perseguito dalle forze dell’ordine; viene tenuto nascosto in famiglia, considerato come atto di fatalità, a cui non si può sfuggire; non viene minimamente affrontato dalla politica, che lo ritiene essa stessa un atto “accettato”. Insomma, la ragazza stuprata e uccisa, prima di morire ha chiesto scusa alla madre, e queste scuse, le scuse di una vittima, sono più eloquenti di un trattato sull’argomento. Ebbene, quanto finora detto era valido fino al 16 dicembre. Dopo tale data e dopo l’assassinio della studentessa a cui è stato dato un nome di comodo, Amanat (tesoro), qualcosa è cambiato. Era evidentemente nell’aria, covava sotto la cenere, e la brutalità dello stupro e dell’omicidio hanno fatto da detonatore nel cuore delle donne indiane. Le quali sono scese in piazza, a centinaia di migliaia, si parla di milioni, ogni giorno, a reclamare diritti sempre calpestati, negati, derisi. I commentatori sostengono che non si assisteva a manifestazioni oceaniche da quando a promuoverle era il Mahatma Gandhi, 65 anni fa. L’India, dunque, ha iniziato questo nuovo anno all’insegna dei diritti di chi è stato sempre considerato un oggetto, un accessorio.
Sono stati sorpresi tutti da questa reazione, politici, poliziotti, probabilmente le stesse donne, quelle che nei villaggi non possono nemmeno parlare. Qualche rappresentante religioso Hindu ha detto che gli stupri sono un fatto di città, d’importazione occidentale. Nulla di più falso: ciò che avviene nei villaggi è peggio di ciò che avviene in città. Dopo le manifestazioni cambierà qualcosa in India? Certamente la svolta non sarà né veloce, né diffusa, né completa, ma ci sarà, la manifestazioni sono l’inizio di un processo che, una volta messo in moto, non si arresterà facilmente.
E i primi a doverne prendere atto e ad agire di conseguenza saranno i politici stessi, con leggi adeguate alla drammaticità della situazione. Evidentemente, ci vorranno anni, decenni, ma, come ha detto qualcuno, il dado è tratto, indietro non si torna. E l’India, cioè le donne indiane, faranno certamente da apripista anche per le donne dei grandi Paesi della regione, Cina e Pakistan compresi.