Scontro tra Monti e Bersani sulla “banca legata ad un partito” mentre D’Alema rivendica la cacciata di Giuseppe Massari dal Monte dei Paschi di Siena, ammettendo implicitamente il potere del Pd sulla banca
E’ scoppiata la bufera del Monte dei Paschi di Siena (Mps), banca legata al Pd e ai suoi antenati (su 15 consiglieri di amministrazione, 13 erano politici, di quale partito non c’è bisogno di precisarlo) ed è affiorata la polemica tra Monti, che dice che Mps è legata al Pd, e Bersani che dice che i partiti sono partiti e le banche sono le banche, mentre D’Alema ammette che furono loro a mandare via l’allora presidente del Mps, Giuseppe Mussari, confessando implicitamente il potere del Pd sulla banca senese.
La polemica diretta tra Bersani e Monti non riguarda solo il Monte dei Paschi di Siena, riguarda il ruolo della Cgil, che Bersani difende e che Monti considera un’organizzazione obsoleta, riguarda le leggi che Monti ha fatto e che non hanno inciso per nulla nella società italiana, se è vero che Monti stesso non è soddisfatto né della riforma del mercato del lavoro, né dell’Imu.
Le notizie del Fondo monetario internazionale (Fmi), che parlano del 2013 come anno ancora difficile per l’Europa e per l’Italia, non hanno fatto piacere a Monti, che dagli avversari si è visto attribuire le mille imprese al giorno che chiudono. Insomma, è polemica tra centrosinistra e centro montiano, ma paradossalmente la polemica nei confronti del Pd la sta conducendo Monti in persona, mentre Casini e Fini si sono defilati. Bersani si difende e contrattacca, ma si vede che i due polemizzano per un fatto di consenso elettorale. Bersani rimane saldo al comando dei sondaggi con il 35 o 38%, a seconda dei committenti, Monti rimane inchiodato al 13-15%, con una particolarità: la percentuale totale rimane invariata ma a perdere è Casini che è passato al 3,8%, una soglia critica che rischia di non farlo passare alla Camera.
In sostanza, esiste un duello nel duello. Il duello è quello tra Monti e Bersani, come detto, con Monti che sarà alleato di Bersani ma che non riuscirà a togliergli la presidenza del Consiglio, dunque dovrà accontentarsi di essere sostegno del governo Bersani con un ruolo che ancora non si sa con precisione. Non potrà certo fare il ministro dell’Economia, perché sarebbe troppo ingombrante e rischioso per l’autonomia di Bersani stesso; non potrà certo fare il ministro degli Esteri, perché quell’incarico appartiene a D’Alema; non potrebbe fare il presidente della Repubblica perché il Pd non glielo permetterà, anche perché mette avanti l’opposizione del centrodestra. Potrebbe occupare due incarichi, uno più prestigioso dell’altro: la presidenza del Senato o la presidenza del Consiglio dell’Ue al posto, quando sarà giunto il tempo, di Van Rumpoy, incarico che lui certamente preferirà a un incarico italiano.
Questa prospettiva, però, è condizionata dal risultato elettorale. E qui s’inserisce il secondo duello, quello tra Casini e Fini da una parte e Monti dall’altra per il condizionamento del centro. Diciamo subito che tra Monti e Casini (e Fini) non c’è armonia. Sì, Casini non perde occasione per osannare Monti, l’agenda Monti, il centro di Monti, eccetera, ma in realtà – e questo Monti lo ha capito benissimo – si tratta di una lealtà di facciata. In fondo, Casini e Fini si sono riciclati all’insegna di Monti, ma giocano a condizionarlo e, se gli riuscirà, a impadronirsi del suo bacino elettorale. In poche parole, stanno giocando a fare con Monti ciò che non è riuscito loro di fare con Berlusconi: prenderne il posto e l’elettorato.
La rottura, seppure sotterranea, tra Monti e Casini-Fini è iniziata quando i due, alla Camera, non hanno accettato la lista unica guidata da Monti al Senato. E’ chiaro che hanno voluto distinguersi e conservare il loro potere politico contrattuale, con la speranza di aumentarlo sotto l’insegna di Monti. Alla Camera non c’è storia: Bersani vincerà facilmente la partita; al Senato, però, Casini si è assicurato una pattuglia di 12 senatori sicuri, in grado di condizionare Bersani stesso se non otterrà la maggioranza. Insomma, Casini vuole avere in mano il jolly della quota che farebbe pendere la maggioranza da una parte o dall’altra, ma solo per aumentare la posta nei confronti di Bersani stesso. Fu il vecchio Cossiga a coniare l’appellativo di “Pierfurby” attribuendolo a Pierferdinando Casini, e mai appellativo fu più azzeccato. Casini gioca per sé, non per Monti. D’altra parte, l’ha detto chiaramente a cose fatte quando ha giustificato la presentazione di una lista Udc autonoma alla Camera: “Non ho accettato di sciogliermi nel Pdl di Berlusconi, non accetto di sciogliermi nella lista Monti”. Anche per Casini vale il discorso fatto per Monti: il potere contrattuale sì, ma bisogna vedere il risultato che uscirà dalle urne.
Su una cosa ha ragione Casini: sulla governabilità della legislatura. In più di una occasione ha detto: “Ho l’impressione che non durerà tanto”. E’ vero che Vendola si è allontanato da Rivoluzione civile di Ingroia ed ha accettato l’idea di un’alleanza con Monti, ma mettere insieme una maggioranza che comprenda Bersani e Vendola da una parte, fautori di un rapporto con la Cgil – tutta spesa pubblica che finanzi l’occupazione facendo schizzare ancora più in alto il debito pubblico e l’insolvibilità dell’Italia – e, dall’altra, Monti, Casini, Fini, sarà un’impresa molto difficile, e il primo ad averlo capito è appunto Casini, che già si prepara a trarre il maggior profitto elettorale possibile da una maggioranza così composita e contraddittoria da non avere un grande orizzonte davanti a sé.