Per ritorsione contro la decisione del governo italiano di non far rientrare i due marò, il governo indiano ha chiesto ed ottenuto dalla Corte Suprema un provvedimento di restrizione dei movimenti per l’ambasciatore italiano Daniele Mancini, in barba alla Convenzione di Vienna
È sempre alta tensione tra l’Italia e l’India, che ha praticamente “sequestrato” l’ambasciatore italiano Daniele Mancini, contravvenendo alle più elementari norme del diritto internazionale, in particolare all’articolo 29 della Convenzione di Vienna. L’ambasciatore italiano non può prendere nessun mezzo che lo porti fuori dai confini dell’India. Se si presenta all’aeroporto, verrà bloccato. La restrizione di movimento a un diplomatico è una misura senza precedenti e la dice lunga sul rispetto da parte delle autorità indiane delle leggi e dei trattati internazionali.
La tensione nei rapporti tra i due Stati è salita nel momento in cui l’Italia ha deciso di non far rientrare i due marò in India. Ai due militari dalla Suprema Corte indiana era stato concesso di recarsi in Italia per il voto politico, con l’impegno giurato da parte dello stesso ambasciatore Mancini a rispettare le scadenze del rientro, secondo i tempi stabiliti (22 marzo).
Il perché il governo italiano ha deciso di far rimanere in Italia i due marò si spiega con la strategia dilatoria messa in atto dall’India. La Corte Suprema, dopo mesi, avrebbe dovuto emettere la sentenza sulla giurisdizione competente a processare i due soldati accusati dell’omicidio di due pescatori, invece, pur riconoscendo che l’omicidio era avvenuto in acque internazionali, ha demandato il giudizio ad un tribunale speciale da costituire, ma con un chiaro indirizzo politico. Il che la dice lunga sulla volontà delle autorità indiane a risolvere la materia del contendere.
D’altra parte, a calpestare il diritto internazionale era stata proprio l’India che, attraverso la Guardia costiera, aveva mentito al comandante della petroliera italiana Enrica Lexie sui motivi che li avevano spinti a chiedere alla nave di attraccare al porto di Kochi per “identificare un paio di pescherecci sospetti”. Nella cronaca sono state indicate le varie fasi processuali che hanno caratterizzato la vicenda giudiziaria dei due soldati italiani. In questa sede, mettiamo a fuoco i contrasti tra i due Paesi che, sostanzialmente, sono i seguenti. L’India pretende che i due marò si presentino entro il 22 marzo in India in quanto devono attendere che si costituisca il tribunale speciale che deve stabilire se il processo spetta all’Italia o all’India. Di fronte alla dichiarazione del governo italiano di non far rientrare in India i due soldati, la Corte Suprema ha aperto una causa contro il diplomatico italiano per “oltraggio alla Corte” in quanto aveva, appunto, giurato per iscritto che i due sarebbero rientrati.
L’India, dunque, si è mostrato un Paese inaffidabile, ma nemmeno l’Italia, con tutte le sue buone ragioni, lo è stato. “Pacta sunt servanda”, dicevano i latini, e l’Italia non lo ha fatto.
L’Italia pretende il rispetto della Convenzione di Vienna sullo status dei diplomatici, sulla loro incolumità e libertà di movimento, affermando che, per quanto riguarda il non rientro dei due soldati, esso si spiega con il non rispetto da parte dell’India dei trattati internazionali sul mare.
E’ chiaro, a questo punto, che è difficile dipanare una matassa che si sta ingarbugliando sempre di più.
L’india ha limitato il movimento dell’ambasciatore italiano e nello stesso tempo ha impedito che il nuovo ambasciatore indiano a Roma partisse per raggiungere la sede.
E’ chiaro che se l’India dovesse arrestare o continuare a limitare i movimenti dell’ambasciatore, se ne assumerebbe le conseguenze sul piano internazionale. Il timore è che per gl’italiani in India si sia aperto un periodo di incertezze e di assenza dei diritti e la prima a subirne le conseguenze è la Finmeccanica, in India per rapporti commerciali e industriali. E’ chiaro anche che l’Italia non può tornare indietro e rispedire i due marò in India: sarebbe un’ammissione di colpa e nello stesso tempo una confessione di superficialità.
I ministri degli Esteri, degli Interni e della Giustizia hanno formalmente informato il capo dello Stato dell’accaduto. Al termine della riunione è stato diramato un comunicato conciliante in cui si auspica che i contrasti siano risolti amichevolmente, tuttavia non si intravede come ciò sia possibile salvando la faccia all’Italia e all’India.
Una soluzione ci sarebbe, ma difficilmente l’India l’accetterà: un arbitrato internazionale, lo stesso a cui si era appellato l’Italia per dirimere la questione della competenza territoriale del processo. I rapporti diplomatici, qualunque sia la soluzione che verrà adottata, sono ormai compromessi, come pure i rapporti e gli scambi commerciali.
Il rischio non è tanto quello che corre l’ambasciatore italiano, a cui prima o poi dovrà essere riconosciuto il diritto di movimento, e nemmeno la compromissione degli scambi commerciali. Il pericolo maggiore lo corrono gl’italiani in India, specie se già nel mirino dei magistrati. Quanto agli indiani in Italia, essi non corrono nessun pericolo, se non altro perché gl’italiani non si metteranno mai sullo stesso piano degli indiani, per i quali i diritti, con tutta evidenza, non esistono, né per gl’italiani in India, né per gl’indiani stessi, e l’impunibilità degli stupri e delle violenze alle donne ne sono una prova lampante.