Il fallimento di Bersani ha obbligato Napolitano a ricorrere ad un atto di alchimia costituzionale per essere esercitare fino all’ultimo il suo ruolo di garante della Nazione
Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è da capire quando, per non far precipitare la situazione, col rischio pressoché certo di una sfiducia dei mercati internazionali che avrebbero aggredito la debolezza italiana, ha tirato fuori dal suo cilindro la Commissione di 10 saggi per supplire ad un nuovo tentativo di incarico con gli stessi esiti kafkiani di quello affidato a Bersani.
La Commissione di 10 saggi si scomporrà in due sotto commissioni con il compito di elaborare proposte di programma in materia di economia (sei saggi) e di riforme istituzionali (quattro saggi), con il ruolo di “facilitatori della soluzione”, cioè, in pratica, di riempire la traversata del deserto fino a quando il 15 maggio non ci sarà un nuovo presidente della Repubblica eletto e con pieni poteri. Napolitano si è trovato di fronte ad una situazione che ha dell’incredibile. Aveva dato l’incarico (o pre-incarico e incarico esploratore, che dir si voglia) a Pierluigi Bersani, il quale aveva subito puntato su un accordo tra centrosinistra e M5S di Grillo, malgrado quest’ultimo avesse ripetutamente affermato, anche in modi coloriti, che lui all’accordo con gli altri partiti non era per nulla interessato.
Noi stessi avevamo dato per scontato la nascita – prima di Pasqua – di un governo Bersani sostenuto da tutti i senatori grillini o comunque da una parte, a cui si sarebbero aggiunti i senatori di Scelta civica (Minti). Bersani, invece, dopo numerose insistenze e perfino suppliche, ha dovuto rendersi conto che i grillini non lo avrebbero appoggiato mai e che non si sarebbero divisi, per cui è andato dal presidente della Repubblica per certificare il fallimento del suo tentativo.
Napolitano, a dire il vero, lo sapeva che sarebbe finita così, come lo sapevano tutti gli altri, a destra come al centro, per il semplice motivo che Grillo glielo aveva detto anche insultandolo, definendolo “morto che parla”, ma l’ostinazione di Bersani – che, ripetiamo, aveva fatto pensare a qualcuno e anche a noi che aveva la soluzione pronta – ha fatto solo perdere tutto questo tempo che va dalle elezioni ad oggi, cioè un mese e mezzo. Va detto subito che Bersani porta lui solo la responsabilità di questa paralisi, perché mentre lui puntava (e quel che è peggio, punta ancora e solo) sul M5S che gli dice no, il centrodestra gli aveva offerto l’appoggio per un governo di larghe intese, guidato da Bersani stesso e per un periodo di almeno due anni o per l’intera legislatura, con la sola condizione di essere legittimato, non più demonizzato. Riteniamo – r dichiarazione in merito si sono sprecate – che il Pdl avrebbe dato l’ok anche ad un governo senza la persona di Berlusconi con un incarico di governo, purché con il carattere di governo di larghe intese o anche Pd-Pdl, garante un accordo tra le parti sul programma e sull’elezione del presidente della Repubblica, che il Pdl voleva che fosse e che sia scelto tra i moderati non di centrosinistra, che aveva già tutte le altre cariche importanti dello Stato: presidenza del Consiglio, della Camera e del Senato. Insomma, il Pdl sosteneva (e sostiene) la necessità che il presidente della Repubblica non sia sempre di sinistra, ma anche di centrodestra, ovviamente una personalità moderata.
Bersani ha detto no su tutto, dicendo che l’elettorato di centrosinistra avrebbe fatto la rivoluzione, dimenticando che in Italia c’è la democrazia parlamentare, cioè i parlamentare scelgono sulla base di un mandato molto ampio del popolo e comunque non vincolante sui singoli punti. Ha detto un no secco ad un “governo di concordia”. Insomma, la demonizzazione dell’avversario considerato nemico e da abbattere ha dato i suoi frutti. Da notare che nel Pd una larga parte avrebbe condiviso ed era (ed è) favorevole ad un accordo di larghe intese o ad un accordo Pd-Pdl. Per adesso ha vinto la linea suicida ed intransigente di Bersani che ha detto, in sostanza: o un governo con Grillo o elezioni a breve.
E qui ritorniamo a Napolitano, che invece ha lavorato proprio per un governo di larghe intese. Di fronte al rifiuto di Bersani, Napolitano non aveva molte scelte. Dare un incarico a Renzi, voleva dire spaccare il centrosinistra e lui non se l’è sentita, anche perché Renzi (o un altro moderato) non poteva accettare senza il consenso della maggioranza del Pd, che è in mano a Bersani. Darlo ad un rappresentante dell’opposizione è impensabile con i numeri che ci sono in Parlamento. Dunque, o Napolitano si sarebbe dimesso in anticipo per “avvicinare” l’elezione del nuovo presidente con pieni poteri, anche di sciogliere le Camere (cosa che lui non può fare a fine mandato), o un governo del presidente, ugualmente difficile data la precarietà della situazione (governo del presidente fino al 15 maggio?). Napolitano è stato convinto da Mario Draghi a non dimettersi per evitare la sfiducia dei mercati, dunque ha scelto i 10 saggi, magari per favorire una intesa tra i partiti sul nome del futuro presidente e sulla composizione di un eventuale governo politico.
Ricorrendo al coniglio del suo cilindro, però, Napolitano ha dovuto prorogare Monti dandogli addirittura pieni poteri, e questo poi proprio qualche giorno dopo che questi aveva dichiarato in Parlamento che non vedeva l’ora di essere sollevato dall’incarico (vicenda marò). Il guaio è però che Monti fu sostenuto da un Parlamento scaduto, il nuovo non gli ha mai dato la fiducia e mai gliela darebbe, dunque si regge su una forzatura costituzionale. Insomma, un pasticcio di cui certo non è responsabile Napolitano, che ha fatto quel che ha potuto in una situazione da caduta di Bisanzio.