Il governo italiano sui due marò ha commesso una serie di errori, con accuse e figuracce reciproche tra l’ex ministro degli Esteri e il presidente del Consiglio
La decisione del governo italiano prima di non far rientrare i due marò in India entro il 22 marzo, termine della “licenza elettorale” concessa dalla Suprema Corte di Nuova Delhi, poi di farli precipitosamente rientrare dopo le veementi reazioni dell’India che aveva ristretto la libertà di movimento dell’ambasciatore Daniele Mancini, è stata un capolavoro di incapacità politico-diplomatica, venuta a galla pubblicamente con le polemiche dimissioni del ministro degli Esteri, Giulio Terzi, e con le dichiarazioni polemiche di Monti in Parlamento che ha accusato il suo ex ministro di perseguire, con le sue dimissioni non concordate, “fini personali”.
Anche chi era ben disposto a giustificare i “toni bassi” che il governo aveva tenuto, fin dall’inizio della vicenda, nei confronti dell’India e anche chi, per carità di patria, si era fatta una ragione della decisione di non farli rientrare per una serie di motivazioni politicamente e anche giuridicamente valide, di fronte alla smentita delle sue stesse decisioni, comunicate fragorosamente a tutto il mondo, non può non ammettere la figuraccia che il Paese ha fatto di fronte agli indiani e alla comunità internazionale.
Quando il presidente del Consiglio Monti, poi, ha confessato alla Camera che “questo governo non vede l’ora di essere sollevato dall’incarico”, si è toccato il fondo della confusione, dell’incapacità e della litigiosità. Una volta, negli anni Ottanta, i contrasti tra i ministri di allora Andreatta e Formica furono definiti le “liti delle comari”. Nei giorni scorsi i “tecnici” hanno dato prova di come si possano rimpiangere i “politici”. Non è questione di Monti o di Terzi, che avranno ciascuno le proprie ragioni, è questione innanzitutto di dignità, poi di “visione” sia dei problemi che delle soluzioni.
La prima serie di errori si è verificata quando la Guardia costiera indiana ha chiesto al comandante della Enrica Lexie di fare dietro front e di attraccare al porto di Kochi per il “riconoscimento” di persone sospette di pirateria. Oggi sappiamo che l’invito era un inganno, allora bisognava prevederlo. A tutt’oggi non si sa bene esattamente se la decisione, presa dal comandante della nave italiana, sia stata consigliata dall’armatore o dalla Marina. La decisione del rientro, che appare in netto contrasto con l’ipotesi di colpevolezza dei due marò, è stata un atto di ingenuità, che da quelle parti non è ammissibile. Infatti, gli esperti dicono che gli incidenti – morti e feriti, danni e atti di pirateria – avvengono giornalmente, ma nessuno, una volta risolto il caso della propria nave, si cura di fare decine di miglia per ritornare a terra per una testimonianza. Alcuni esperti hanno detto che a circa mezz’ora di volo dalla Enrica Lexie c’era un’altra unità italiana con elicotteri e attrezzature sofisticate. Un elicottero avrebbe dovuto prelevare i soldati e richiedere, per le vie gerarchiche, i motivi in dettaglio della richiesta indiana.
Altra serie di errori. Una volta nel porto e dopo l’arresto dei due marò, l’Italia avrebbe dovuto sollevare la questione in sede Onu, chiedere l’aiuto internazionale per risolvere la questione in punta di diritto e per via diplomatica. Il che non solo non è stato fatto, ma l’aiuto internazionale è stato rifiutato di proposito. Monti e Terzi, forse, pensavano di risolvere il problema solo perché si chiamano Monti e Terzi. Aver mostrato, poi, ufficialmente, davanti al mondo intero, che l’Italia concedeva donazioni spontanee ai familiari delle vittime (circa 600 mila euro in totale) è stato apprezzato dalle famiglie dei pescatori (non da tutti i membri di quelle stesse famiglie) che hanno ritirato le denunce, ma agli occhi del mondo è stato la donazione è stata recepita come “risarcimento”, un’ammissione di colpevolezza.
Aver lasciato la materia ai magistrati e non averla subito collocata sul piano diplomatico e politico internazionale, si è rivelata una superficialità, aggravata dal fatto che quando i due marò sono stati fatti rientrare in Italia per il Natale nessun magistrato italiano, così sollecito in alcuni casi nell’invocare l’obbligatorietà dell’azione penale in presenza di un possibile reato, li ha arrestati, né in nome dell’obbligatorietà dell’azione penale, né dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura, con le cui prerogative l’Italia avrebbe potuto contrastare, in maniera pulita ed elegante, le prevaricazioni della polizia (indagini lacunose) e della stessa magistratura indiana. Nulla di tutto questo, e in modo del tutto incomprensibile e illogico.
Aver deciso di non far rientrare i soldati in India è stato poco politico e poco diplomatico, comunque poco dignitoso per un Paese, ma aver sottovalutato le reazioni degli indiani, le implicazioni politiche ed economiche che loro hanno sfruttato benissimo, significa non avere conoscenza di un Paese imponente ed economicamente emergente come l’India. Dove sono le competenze dei nostri diplomatici? Dove sono i nostri servizi segreti? Ancora una volta: non si poteva chiedere informazioni ad altri Paesi amici? All’Inghilterra, per esempio, per decenni Paese coloniale in India, o alla Russia, per esempio, che con l’India fa parte dei Paesi cosiddetti “Brics”? L’ex ministro Terzi, in questo, non ha nessunissima scusante, come non ce l’ha Monti che prima approva la decisione di non far ripartire i due marò e poi vorrebbe far ricadere la colpa sul suo ministro degli Esteri, accusandolo poi di presunti “fini personali”.
Su questa vicenda, gestibile e risolvibile in due giorni, come fanno altri Paesi nelle stesse situazioni, l’Italia ha mostrato che i suoi uomini presunti migliori si sono rivelati inadeguati e quando questi stessi uomini hanno detto che non vedono l’ora che l’incarico termini, beh, il sospiro di sollievo lo tirano gli italiani. Peccato solo che a farne le spese siano due soldati e le loro famiglie.