Uno studio inglese mostra che la paghetta ha senso e valore solo se è una ricompensa ad un lavoro portato a termine
E’ vero che siamo in tempi di crisi, e dunque potrebbe sembrare un argomento fuori luogo, ma i bambini vivono in un altro mondo, quello dell’infanzia, e dunque il tema è sempre attuale. Bisogna dare o no la paghetta settimanale per responsabilizzare i bambini, abituarli a gestire il loro patrimonio, farli crescere badando a che non sciupino le loro risorse? Una volta la paghetta non c’era, anche perché chi gliela doveva dare non ce l’aveva nemmeno lui (o lei). Poi, con il benessere, è stata introdotta, magari non da tutti, ma è comunque diventata un segno di corresponsabilizzazione. Insomma, sì alla paghetta.
Ora, però, dalla gran Bretagna è venuto l’alt. Due scienziati londinesi, infatti, hanno affrontato l’argomento in uno studio ed hanno concluso che no, la paghetta non si deve dare, perché farebbe dei bambini dei dipendenti, non li aiuta a crescere, anzi, li aiuta a non calcolare il valore dei soldi e dunque a sperperarli.
Secondo gli scienziati londinesi, più che la paghetta automatica a scadenza fissa, meglio un premio per un lavoro fatto, per un compito portato a termine, insomma la paghetta solo come ricompensa per qualcosa che si è fatto. Addirittura, i due scienziati hanno tratto la conclusione secondo cui ricevere la paghetta settimanale significa educare i ragazzi a spendere di più e peggio. La paghetta, in ultima analisi, sarebbe diseducativa, tanto più che più aumenta la paghetta, più il bambino diventa spendaccione. C’è qualcosa di vero in questa tesi. Quando si ricevono dei soldi senza guadagnarseli, ci si culla sugli allori, tanto, si dice, la prossima settimana la paghetta si riceverà automaticamente. Dunque, se la paghetta non è educativa, allora c’è l’altra via, quella di dare una ricompensa ad un lavoretto portato a termine, così il bambino cresce con la sensazione di ricevere una ricompensa solo se s’impegna per fare qualcosa.
A ben pensarci, è quello che avviene nel mondo anglosassone, dove le paghette si danno se uno se la è guadagnata. Che è poi ciò che accade sia in Gran Bretagna che in genere nei Paesi di lingua inglese, come in Canada e negli Usa, dove, appunto si riceve una ricompensa solo a lavoro ultimato. Un’altra ricerca, invece, compiuta da “Tru teee study” nel 2010, dice che gl’italiani ricevono una paghetta nettamente superiore a quella che ricevono i bambini stranieri, specie quelli nati nei Paesi nordici. Da noi raramente si ricompensa per un lavoro fatto, si distribuiscono paghette come se fossero caramelle, anzi, le paghette nostrane sono di solito più generose. Nessuno controlla (è tipico degli italiani) cosa il bambino fa dei soldini ricevuti per grazia dei genitori o parenti. Pochissime sono, poi, le paghette date come ricompensa ad un servizio reso. Insomma, i genitori italiani sono dei bancomat viventi. Non ci si può stupire se poi quel bambino cresciuto a pane e paghetta, a 30-40 anni e oltre, rimane in casa per tutta la vita e diventa un “bamboccione”.
Secondo l’Istat i bambini italiani che ricevono regolarmente le paghette sono il 31% tra i 6 e i 17 anni (il 32.7% dei maschi e il 29,2% delle femmine). L’importo medio è di 14 euro settimanali, risultato di 7 euro per la fascia 6-10 anni e 10 euro per l’età compresa tra gli 11 e i 17 anni. C’è però una peculiarità. E’ vero che i bambini italiani prendono una paghetta più pesante di quella di altri bambini del Centro e Nord Europa, ma è vero anche che soprattutto al Nord Italia sono più risparmiatori rispetto ai loro coetanei europei. Il che parrebbe smentire i risultati dello studio inglese.
C’è da dire che essere risparmiatori o spendaccioni dipende, più che da quanto si possiede, dal carattere che uno ha.
Tirchi, insomma, si nasce.