A nove anni di distanza dall’attentato alle Torri Gemelle sono due le voci che si sono levate: quella di chi, come il Presidente americano, e prima di lui il Papa e tanti altri personaggi di buon senso, dice che “Non siamo in guerra con l’Islam” ma contro i terroristi e quella di chi vede nell’Islam un tentativo di compiere un’occupazione di territorio, di civiltà e di coscienze. Diciamo la verità: il fanatismo impersonato dal reverendo Terry Jones poteva essere evitato con un maggior senso di responsabilità da parte dei mass-media e con esso potevano essere evitate anche le reazioni di violenza compiute ai danni di tante vittime in vari Paesi musulmani, dall’Afghanistan al Pakistan. Sarebbe bastato che i giornali e le tv avessero oscurato la sceneggiata del pastore americano. Però, il problema esiste e sarebbe sciocco far finta del contrario. Nelle società occidentali ci sono larghi strati di popolazione di ogni ceto sociale, culturale e politico che pensano che siamo in presenza di una colonizzazione al contrario, cioè una progressiva, anche se pacifica, espansione dell’Islam nei Paesi o cristiani o comunque di civiltà cristiana, come sono quelli di cultura occidentale. Questa “colonizzazione” non è tanto o solamente avvertita dai quartieri con elevato numero di musulmani, con tutto ciò che ne consegue in termini di negozi e ristoranti o semplici punti vendita di merce etnica, quanto dalle richieste sempre più numerose di costruire centri islamici (moschee) nelle nostre città, al punto che sono in molti a pensare che fra cinquant’anni, per semplificare con un’immagine già nota, il suono delle campane rischia di essere sopraffatto dagli altoparlanti dei minareti. Il fenomeno, in realtà, non è così automatico. Probabilmente il confronto fa bene anche ai cristiani che così sono spinti a gareggiare in termini di testimonianza religiosa, non solo formale (crocifissi nelle scuole e nelle aule dei tribunali); probabilmente, col passare del tempo, molti musulmani saranno “cristianizzati”, però il malessere, dicevamo, esiste e non sono le dichiarazioni di principio o gli slogan o gli appelli al buon senso che riusciranno a spazzarlo via. L’anno scorso, il Presidente americano fece un discorso coraggioso e chiaro al Cairo, quando, rivolgendosi ai Paesi arabi e musulmani, pose l’accento sulla pari dignità, sulla libertà religiosa, insistendo, come ha fatto sabato scorso, 11 settembre, che Dio è uno solo e che quindi ogni religione merita rispetto. Lo abbiamo accennato all’inizio: prima di lui lo hanno fatto tanti altri e lo fanno negli scambi interreligiosi e interculturali ad ogni livello, ma ciò non sembra risolvere il problema. Il fatto è che anche chi comprende come sia giusto concedere un luogo di culto e favorire con ogni mezzo l’integrazione non può non riflettere sul fatto che, a parte pochissime lodevoli eccezioni nei Paesi di religione islamica, non c’è reciprocità. Mentre nei Paesi occidentali e cristiani, magari con forti mal di pancia, si permette la costruzione di moschee (a Roma, sede del cattolicesimo, esiste la più grande moschea d’Europa), nei Paesi arabi e musulmani costruire chiese o semplicemente dirsi cristiani, per i cittadini locali, significa essere condannati all’isolamento e spesso alla morte. E allora? La reciprocità non può essere lasciata ai rappresentanti religiosi, ma deve essere una politica perseguita deliberatamente dagli Stati e dai governi allo stesso modo come vengono trattati i temi economici e politici, e deve essere posta innanzitutto nei Paesi amici. Senza questa politica non ci si può lamentare che nelle società occidentali molti cittadini si sentano in qualche modo “traditi” o “espropriati”, anche se a torto. ✗[email protected]
Articolo precedente
Prossimo articolo
Ti potrebbe interessare anche...
- Commenti
- Commenti su facebook