Accompagnare verso la morte una persona che ha deciso di far ricorso al suicidio assistito può causare problemi psichici e depressione. Questo è quanto risulta da uno studio dell’Università di Zurigo che ha mostrato che il disturbo colpisce un famigliare su quattro tra chi ha fatto una simile esperienza
Come ormai è noto, in Svizzera ci sono tre organizzazioni che si adoperano per dare il loro aiuto a chi ha deciso di morire perché afflitto da gravi malattie. Queste tre organizzazioni, Exit A.D.M.D, Exit e Dignitas (le ultime due con sede a Zurigo), operano da molti anni e hanno assistito centinaia di casi di malati terminali e con sofferenze atroci a porre fine, secondo il loro volere, alle sofferenze della malattia. Chi affronta una decisione del genere, preso dalla disperazione per la sua situazione, spesso non è solo ma viene “accompagnato” nel suo ultimo viaggio da un amico intimo o un parente che è informato. Così molti pazienti che hanno deciso per una morte dignitosa, in un certo senso, coinvolge i familiari all’evento, ma mentre le sue sofferenze si alleviano nel momento in cui muoiono, iniziano per tutti coloro che restano. I pensieri di un parente del malati che ha deciso di ricorrere alla morte dolce sono tanti, contrastanti e si affollano nella mente dei parenti insieme al grande dolore causato dalla perdita del caro. Ne consegue così un periodo di depressione o di disturbo post-traumatico da stress (DPTS) che coinvolge un quarto dei familiari di coloro i quali hanno deciso per la morte assistita. Bisogna considerare che una morte è sempre un momento traumatico e sconvolgente per chi resta. Si vede andare via per sempre una persona cara e il dolore per la perdita, molte volte, crea delle conseguenze a livello psichico, difficili da superare. Quando poi si tratta di dover assecondare la scelta di un caro, scegliere alleviare in modo definitivo le sofferenze con una soluzione così drastica, le cose peggiorano di tanto. Ne sanno qualcosa alcuni dei parenti dei malati terminali che hanno scelto di morire in una delle organizzazioni che si occupa di assistenza al suicidio.
Questo è quanto risulta da uno studio eseguito da ricercatori dell’università di Zurigo e pubblicato dalla rivista specializzata “European Psychiatry”. I ricercatori hanno interrogato 85 familiari o amici di persone che durante i mesi precedenti si erano tolte la vita con l’assistenza di una organizzazione che assiste chi vuole togliersi la vita. Il 20% ha in seguito sofferto di un disturbo che in termini clinici viene definito post-traumatico da stress, il 16% ha dovuto farsi curare per una depressione, e presso il 5% dei partecipanti allo studio è stata riscontrata un ”lutto complicato” che faceva sentire le sue conseguenze ancora un anno dopo la morte del familiare. Questi disturbi appaiono con maggior frequenza in relazione ai suicidi assistiti rispetto ai casi di morte naturale, afferma la psicologa Birgit Wagner, responsabile dello studio pubblicato sull’ultimo numero della rivista scientifica “European Psychiatry” e al quale il “Tages Anzeiger” ha dedicato oggi un lungo articolo. Nello studio, non è stato effettuato un confronto diretto con i famigliari di persone decedute di morte naturale, però hanno confrontato i loro risultati con quello di un precedente studio che ha preso in esame casi di persone fra i 65 e i 95 anni d’età che hanno visto morire per cause naturali persone a loro vicine. Da questo confronto risulta che, nel caso delle morti naturali, soltanto il 5% dei famigliari sviluppano un disturbo post-traumatico e soltanto lo 0,7% una depressione. Secondo gli autori del nuovo studio, i casi di DPTS sono più frequenti in “un contesto sociale che ha poca comprensione per l’assistenza al suicidio”. Anche le indagini ordinate dalla magistratura in simili casi possono aumentare la pressione sui famigliari e gli amici di persone che ricorrono ai servizi di Exit.