Il ministro dell’Integrazione, Cécile Kyenge, nel corso di una trasmissione televisiva (In mezz’ora, Rai 3), ha annunciato un disegno di legge sullo “ius soli” (l’acquisizione della cittadinanza per il semplice fatto di nascere in Italia). Il ministro ha anche detto che bisognerebbe abolire il reato di clandestinità, che avrebbe come conseguenza logica la rinuncia da parte dello Stato a controllare le frontiere e quindi a far entrare nel nostro Paese tutti coloro che lo vogliano. Questa seconda esternazione è palesemente assurda, non solo per l’Italia, ma per qualsiasi Stato, quindi non la prendiamo nemmeno in considerazione. Prendiamo in considerazione, invece, la cittadinanza, per dire che in Italia vige lo ius sanguinis, cioè si è cittadini italiani se uno dei due o tutti e due i genitori sono italiani. Si diventa cittadini italiani per ius soli solo in un paio di casi, quando i genitori del bambino “sono ignoti o apolidi” o quando “il figlio di ignoti viene trovato nel territorio della Repubblica se non venga provato il possesso di altra cittadinanza”.
L’esternazione del ministro ha suscitato reazioni di segno opposto. In estrema sintesi, c’è quella di Matteo Salvini, che ha parlato di “istigazione alla violenza”, che non vale nemmeno la pena di confutare tanto è scomposta, e quella del presidente del Senato, Piero Grasso, che ha dichiarato: “Non possiamo fare in modo che l’Italia diventi il Paese dove sbarcano le puerpere soltanto per ottenere la cittadinanza italiana per i figli. Ci vogliono regole”. Il seguito della dichiarazione è interessante: “Lo ius soli va temperato dallo ius culturae, la possibilità di dare la cittadinanza a coloro che hanno imparato o seguito un corso professionale nel nostro Paese. Oppure che almeno un genitore soggiorni nel nostro Paese da almeno cinque anni, che uno dei genitori sia nato nel nostro Paese e vi soggiorni quando è nato il figlio”.
L’opinione del presidente del Senato è condivisibile, seria, equilibrata, piena di buon senso, al punto che ricalcare pari pari le modifiche alla legge n. 91 sulla cittadinanza, approvata il 5 febbraio 1992, modifiche contenute nel disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri nella riunione del 4 agosto 2006 e mai diventato legge dello Stato, così che la normativa attualmente in vigore è quella del 1992 (ius soli solo nei casi eccezionali citati).
Nel mondo, solo Gli Stati Uniti e il Canada (e, se non andiamo errati, l’Australia) si diventa cittadini per nascita, in tutti gli altri Paesi europei – lo ha scritto Alessandra Arachi sul Corriere della Sera del 7 maggio scorso – non basta nascere sul territorio per diventare cittadini. Lo si diventa se lo si richiede e se si verificano alcuni requisiti come la conoscenza della lingua, la frequenza di un corso di formazione professionale e la durata di permanenza legale nel Paese di almeno alcuni anni (il numero varia). Ci sembra la soluzione più equilibrata. Concedere la cittadinanza solo per ius soli, sganciato dai requisiti di volontà e di desiderio di far parte di una comunità che si sente come propria, ci sembra sbagliato e poco educativo. Senza contare che l’Italia, a differenza del Canada, degli Usa e dell’Australia – che hanno un territorio immenso – non se lo può permettere, specie in un periodo di crisi occupazionale come quella che stiamo vivendo.
L’accoglienza, come sa chiunque viva o abbia vissuto all’estero, significa apertura, incontro, scambio, crescita, tutti fattori positivi, ma essa va regolamentata in modo che si coniughi con la dignità di un lavoro, di una casa, di una formazione, di un futuro. Non basta il pezzo di carta, ci vogliono regole, come dice Piero Grasso, regole e cuore.