I miei anni a Parigi.
Il ragazzo nato in quella valle racchiusa dalle orobie e dalle retiche che aveva per tanti anni sognato di scoprire il mistero al di là delle vette innevate.
Aveva vissuto qua e là. Persino tentato una impossibile avventura universitaria che, date le condizioni della famiglia, era come pretendere di attraversare l’oceano con una barchetta a remi o arrampicarsi sulla vette del K2, come pochi anni prima riuscì all’eroismo dei leggendari Lacedelli e Compagnoni, che tanto dovettero alla irruente baldanza del grande Bonatti. Ti ho conosciuto, Walter, tu che scegliesti di vivere con la tua amata nei luoghi della mia valle e già osservando il luccichio dei tuoi occhi mi sembrava di scorgere la luce dei ghiacciai himalayani e andini a cui tu parlavi una volta raggiunte le vette. E un giorno, inatteso, l’arrivo a Parigi. Inatteso, perché frutto, allora così io vissi l’umana vicenda, della fine di un sogno. L’arresto di un percorso e forse un ritorno all’indietro. A scelte di vita intraprese senza che il lume rischiari la via per rendere il cammino meno arduo e tortuoso. Vabbè!
Non vi è altro che darsi da fare. Riprendere il filo spezzato e iniziare una nuova e persino più ardua avventura che mi avrebbe portato sin qua a scrivere a tanti di voi a cui, qualche volta, racconto mie piccole storie. Nulla di grande. Solo piccoli tratti di vita vissuta da me e da altri. Parigi, si sa, è una macchia di verde e di luci che tu, pur salendo lassù, ove il vento, quando arriva dal nord, trasforma la Dame nell’amaca del giardino di casa, non ne scorgi, all’orizzonte, la fine. È Serge (Cappè), di cui serbo un commosso ricordo, che mi accoglie e mi porta in banlieue, a Montreuil. Mi mostra un palazzo, una stanza, o qualcosa di più. L’ambiente non è quanto di meglio può darti la vita. Non vi è quasi nulla, se non un lettino che sa tanto di ospedale e caserma. E quel cucinino da campo boys scout, in cui, colui che se ne è andato, ha lasciato indelebili tracce. Tant’è. Ma se apri e ti affacci al mini balcone ti assale la torre, la Dame. E tu ti senti smarrito. Un nulla e indifeso da tanta imponente grandezza ideata dal genio dell’uomo di cui porta il nome. Ho vissuto degli anni di intenso impegno sindacale e politico.
Gli incontri alla rue Solferino , la sede nazionale del partito del presidente, Francois Mitterrand , che porta nel simbolo il pugno che afferra la rosa scarlatta. La place bastille, che ti accoglie nei giorni solenni: il trionfo o l’addio dell’uomo e del leader più amati. Francois (Mitterrand) e Enrico (Berlinguer ). Conservo una foto un poco ingiallita dal tempo. Ambedue sorridenti. Ma nei visi scavati dalla forza degli anni indovini una grande tristezza. Chissà? La sconfitta o la fine di un sogno: cambiare il destino dell’uomo. E quando tornavo alla vecchia dimora lanciavo un ultimo sguardo alla torre (Eiffel). In fondo, la odiavo. Altera , babele splendente di luce, la vecchia, nei suoi cento anni. A me, è sempre sembrata arrogante, irridente nel pur suo astrale splendore. Persino l’armata hitleriana, dal putrido passa dell’oca, non seppe domarla, ridurla a ferraglia da cui era nata.
È tardi, Al calar della sera prendo il treno dell’est, l’Albaret. Torno a casa: Belfort, Basilea, Zurigo. Anche lì mi attende una vecchia. Una storia che va raccontata. Perché è ricca di ombre e di luci, e forse, ricorda un percorso, il comune destino di un tempo che fu. Ma che dico? Era ieri. Può darsi, persino, un domani