Agli inizi degli anni Ottanta e in modo particolare a metà e soprattutto oltre, tra i ragazzi della seconda generazione era già maturo allora il convincimento che la loro vita si sarebbe svolta in Svizzera. Nati in Italia e venuti in Svizzera in tenera età o nati qui, c’era l’amore per l’Italia, trasmesso dai genitori e irrobustitosi durante le vacanze passate al paese d’origine con i parenti e amici, ma c’era la consapevolezza che erano cresciuti in Svizzera, che qui frequentavano o avevano frequentate le scuole e qui si sarebbero radicati, con la conoscenza della lingua, con il lavoro, con la condivisione del modo di pensare, con le abitudini, con lo stare bene qui, in Svizzera. L’Italia, insomma, era il tempo delle vacanze, di radici e di un amore che proveniva da lontano, che dimorava in un cantuccio del cuore e della mente, ma poi era in Svizzera che ci si sentiva a casa. L’integrazione non è solo una parola, è soprattutto un’intima e sentita adesione a dei modelli culturali, sociali, linguistici, è una condivisione di spazi, di luoghi, di voci e colori che popolano l’interiorità di ciascuno.
In Italia, si sa, la comunità dei cinesi è molto numerosa, concentrata in particolare in determinate regioni e città, come Prato e Milano e sicuramente in altre. Si tratta di comunità percepite come chiuse, impenetrabili, che nelle zone suddette sono operose nel commercio, nell’artigianato, nell’import-export non di qualità. Talmente impenetrabili che formano quasi delle cittadelle, più o meno vaste, dove vigono regole, usi e tradizioni a sé, anche sfruttamenti e prevaricazioni. Impenetrabili anche alla polizia. Ebbene, noi le percepiamo come realtà a sé, come delle isole inaccessibili, ma al loro interno sembrano maturi e vivi quei processi di integrazione frutto di riflessioni e di dibattiti che anche i giovani di seconda generazione avevano già vissuto (per le altre successive generazioni il dilemma svizzero-italiano era già risolto).
Ha suscitato clamore e, diciamolo pure, grande commozione il dibattito innescato sul sito di Associna da Sun Wen-Long, giovane cinese di 24 anni, laureando in Ingegneria informatica, nato a Brescia ma residente a Bologna. La sua lettera è più efficace di cento editoriali. Scrive Sun Wen-Long: “Mio nonno Giuseppe arrivò in Italia nel 1957 … Prima ancora di lui suo fratello Umberto nella metà degli anni ’30. Entrambi hanno passato più di 40 anni in Italia. Sono tornati almeno una volta in Cina prima di morire. Potevano tranquillamente decidere di rimanere là, però tutti e due hanno deciso di concludere la loro vita a Bologna, dove hanno addirittura comprato le tombe per tutta la famiglia. Qui posso pregarlo e onorarlo quando voglio, perché è qui che abbiamo messo radici io e la mia famiglia. Ci sono tanti ragazzi e tante famiglie di origine cinese che nonostante le difficoltà hanno scelto di vivere qui, di lavorare in Italia e di morire qui. E allora cerchiamo di fare qualcosa, di difendere i nostri diritti e dire che anche questa è casa nostra. Qui lavoriamo, qui cresciamo i nostri figli e qui abbiamo la nostra casa. Cerchiamo di difendere ciò che abbiamo costruito con fatica e impegno, cerchiamo di comunicare di più con la società italiana, di essere sinceri con noi stessi. Cerchiamo di apprezzare ciò che ci ha dato l’Italia e allo stesso tempo di condannare qualsiasi forma di discriminazione. Io faccio volontariato da sei anni in Associna, ho cominciato quando avevo 18 anni e sono diventato italiano, come mio nonno”. E conclude: “Amo la mia famiglia, amo la mia casa ed il posto dove vivo”. In una seconda lettera: “Sia chiaro, non rinnego le mie origini … ma ora tutti noi siamo in Italia, lavoriamo in Italia, dormiamo in Italia, ci svegliamo sotto il bel cielo azzurro dell’Italia e se non cominciamo a considerarla come la nostra casa ma solo una terra da sfruttare cosa rischiamo di lasciare ai nostri figli?”.
Il dibattito è stato lanciato e s’annuncia molto bello e interessante.