La nozione di “vivente” al cospetto di alcune situazioni estreme sarà il tema della prossima conferenza ASRI tenuta dal Professor Ronchi, insegnante presso l’Università degli Studi di L’Aquila. In attesa di poterlo ascoltare dal vivo, abbiamo avuto l’opportunità di rivolgergli alcune domande….
Prof. Ronchi, lei ha dedicato la sua vita alla filosofia. Cosa la affascina di questa disciplina?
Il fatto che forse non è solo una disciplina o, meglio, che è una disciplina nel senso più ampio del termine, nel senso in cui con disciplina si intende un particolare modo di vivere, un esercizio. La filosofia, infatti, prima di essere una forma del sapere tra le altre è una forma di vita, un modo di stare nel mondo alla giusta distanza dalle cose per vederle lucidamente. Se dovessi dire in una battuta che cosa mi ha affascinato in questa “disciplina” direi proprio che è stato lo sguardo lucido e freddo che essa rende possibile.
Può la filosofia costruire un rimedio ai malesseri della nostra era e in che modo può intervenire positivamente?
In quanto creato dalla filosofia, è ancora nella filosofia e grazie alla filosofia che il mondo nel quale viviamo può essere sottoposto ad una critica ed è sempre grazie alla filosofia che si possono indicare delle vie d’uscita. La filosofia non propone rimedi. La filosofia non consola. Questo lo credono coloro – e sono tanti! – che confondono la pratica filosofica con l’edificazione o con la terapia. Piuttosto essa, problematizzando il mondo dato, mostrandone la genesi, esplicitandone i nessi strutturali (spesso invisibili ad uno sguardo pre o non filosofico), relativizza il mondo nel quale viviamo, ne traccia i limiti e prospetta soluzioni alternative.
Filosofia e scienza: in che misura le due materie possono interagire tra loro e quali benefici potrebbero scaturirne?
Non possono, ma devono interagire. Per troppo tempo, soprattutto nel 900, i cammini della filosofia e quello della scienza si sono separati. Ciascuna guardava con sospetto l’altra. Ciascuna accusava l’altra di ingenuità o di ignoranza delle proprie tematiche. Il compito della filosofia a venire – se vorrà ancora essere filosofia e non semplice chiacchiera “letteraria”– sarà invece quello di offrire alla pratica scientifica un modello speculativo adeguato. Bisogna pensare gli “oggetti” della scienza, bisogna produrre concetti adeguati al reale che la pratica scientifica mostra. È un reale che non ha più l’uomo come unità di misura. Nel 900 ci hanno provato alcuni filosofi, restando per lo più marginali. Cito quelli a me più cari: Henri Bergson, Alfred North Whitehead o Gilles Deleuze.
Parlando della conferenza che terrà il prossimo 13 novembre a Zurigo, lei affronterà la complessa nozione di “vivente”: può anticiparci qualcosa su ciò che ascolteremo?
Vorrei problematizzare una nozione apparentemente ovvia, la nozione di “vivente”. La struttura del vivente è uno dei grandi problemi di una filosofia che vuole dialogare con le scienze, in particolare con la biologia. Lo farò partendo da alcune situazioni limite che, purtroppo, sono ben note anche ai non filosofi. Intendo dire quelle situazioni estreme, rese possibili dalla tecnica moderna, nelle quali la differenza tra il vivente e il non vivente sfuma fino a diventare indiscernibile. Penso, ad esempio, a certi stati terminali, alle zona d’ombra tra la vita e la morte che la tecnica moderna rende possibile. Ma il punto di partenza del mio discorso sarà una questione che è stata sollevata per la prima volta da Aristotele: in che rapporto stanno il vivo e il morto?
Come interviene la filosofia al cospetto di “situazioni-limite” tipiche?
La filosofia non interviene. Essa è competente sul senso non sui fatti. Essa può mostrare, ad esempio, l’insensatezza di una tecnica che si ostina a prolungare la vita oltre un certo limite, limite che corrisponde a ciò che taluni chiamano “dignità” del vivente. Spetta alla politica, ad una politica filosoficamente “in-formata”, tradurre le questioni di senso in questioni di fatto. La responsabilità filosofica della politica è oggi enorme. Per gli antichi, non a caso, tra filosofia e politica vi era continuità assoluta. Oggi abbiamo un gran bisogno di riattivare questa continuità, contro gli “specialisti” tanto nella politica quanto nella filosofia
Cosa l’ha spinta ad approfondire questi temi e a chi fa riferimento nei suoi studi?
Come dicevo, nei miei studi mi riallaccio ad una tradizione di pensiero “minore” rispetto a quello che ha costituito il mainstream filosofico del 900 (che è stato quello fenomenologico-esistenziale). Penso a quei filosofi che, come i pragmatisti, Bergson o Whitehead, hanno provato a produrre una nuova filosofia della natura, una filosofia a misura di quella natura che la scienza contemporanea ha indagato nei suoi laboratori, ma che, forse, non ha ancora adeguatamente “pensato”.