Pubblicato nel 1981, ma poi riscritto per ben due volte, “Atto gratuito” è un romanzo esistenziale, nato da un malessere individuale o forse di tutta una generazione (quella del ’68) oscillante tra illusioni e ideologie, confusione e velleità, ma per la quale si coniugavano, in un groviglio esaltante quanto fragile, dinamismo e ricerca, conflittualità e consapevolezza, solitudine e fallimento, disagio e reazione, smarrimento e miraggi collettivi. Dalla narrazione retrospettiva emergono le storie parallele di due uomini, che, pur percorrendo ciascuno il proprio binario, si scontarno infine fatalmente con l’elemento che sempre li ha accomunati: l’amore per una stessa donna
Nella sua carriera lei ha realizzato numerosi scritti passando per diversi generi letterari. Come si è evoluto nel tempo il suo modo di scrivere?
La mia storia letteraria ha esordito con la poesia. Ho scritto a undici anni le prime composizioni, in cui, benché inconsapevolmente, mi destreggiavo con una certa bravura tra i metri tradizionali, che poi sono rimasti una cifra stilistica della mia produzione poetica, comprendente una dozzina di raccolte, più due “canzonieri” di dimensioni petrarchesche. Costante, in essa, è la tensione a una scrittura che sia al tempo stesso densa di significato senza cadere in astruserie; mirante a una leggibilità che, assecondando la peculiare prosodia dell’italiano, inclini al parlato senza sacrificare il battito ritmico degli endecasillabi e dei settenari. Il fatto di essere nato poeta mi ha tanto sensibilizzato al valore della parola, che anche nelle opere narrative di ampie dimensioni ho sempre perseguito un’inconsueta pregnanza lessicale e semantica: il che fa sì che un certo lirismo percorra anche i miei romanzi. Quanto alla prosa, oltre a racconti e opere teatrali, ho scritto diversi romanzi. L’ultimo, Il declino degli dèi, che sta apparendo da anni su questo giornale, è un enorme work in progress, di cui proprio in questi giorni sto portando a termine il quarto tomo, prevedendone (Parche permettendo) almeno altrettanti ancora.
In particolare “Atto Gratuito” è stato riscritto due volte dopo la prima stesura avvenuta nel 1981. Cosa cambia tra la versione odierna e quella del 1981? Perché il bisogno di ritornare per ben due volte su questo scritto?
Con Atto gratuito ho inteso scrivere un mio personale “ritratto di artista da giovane”. Ma la forma in cui oggi il romanzo appare presuppone una lunga preistoria. In questo senso Atto gratuito non è soltanto il Bildungsroman di una vocazione, ma anche il risultato di un lavoro che mi ha accompagnato a lungo. Lo iniziai a diciassette anni, per giungere alla pubblicazione nel 1981, col titolo di Atto terzo. Dopo di che, vi misi nuovamente mano e lo riscrissi due volte, con ossessiva acribia stilistica, finché non trovai la formula risolutiva dell’Atto gratuito, che, sollevandosi sull’esperienza personale, mirava a farsi interprete di temi più universali. Per poterci riuscire, però, mi occorreva distanziarmi da quel periodo descritto, e attenderne una più pacata storicizzazione. Col risultato che il mio giudizio su di esso, inizialmente piuttosto severo, si è attenuato col tempo, portandomi a una parziale rivalutazione, non foss’altro perché veicolava la stagione mitica della giovinezza.
Abbiamo visto che “Atto Gratuito” viene considerato un romanzo ma si divide in atti come una commedia, vi si possono leggere dissertazioni filosofiche e ad un certo punto diventa perfino un diario intimo. Può spiegarci l’opera da un punto di vista formale?
Senza dubbio la sua struttura del romanzo rinvia a quella di un testo teatrale, con un prologo, un atto primo, un atto secondo e un epiloghetto un po’ beffardo. Ma mentre nell’edizione dell’81 il titolo Atto terzo era posto a conclusione dei due atti precedenti, con i successivi approfondimenti si è sempre più venuto configurando non come sezione risolutiva di una pièce teatrale, ma come epitome dell’intero Atto gratuito di esistere. Ciò spiega la presenza nel romanzo di considerazioni di carattere filosofico, che mirano a scandagliare il dramma in cui tutti siamo immersi, manovrati in sottosuolo da un “polipo” che ci manovra e determina le nostre scelte. A tal proposito, il diario del secondo atto, oltre alla funzione di chiarire l’azione, nella sua apparente staticità dà conto direttamente della qualità artistica di Ugo, aprendo uno spiraglio sulle coulisse delle scrittura.
Spesso un autore si serve della voce dei personaggi per esporre le proprie idee. Possiamo considerare Ugo portavoce delle sue idee o è solo un mezzo per analizzare alcuni temi di grande interesse?
Senza dubbio a Ugo ho attribuito alcune mie riflessioni di quegli anni. È difficile, per un scrittore sfuggire alla tentazione di proiettarsi nei personaggi, e d’altra parte più nessuno abbocca al mito dell’impersonalità. Ciò che si chiama “poetica” di un autore, altro non è che l’oggettivazione in personaggi e scenari immaginari dei suoi spettri interiori.
Il romanzo è ambientato a cavallo degli anni ’60 e’70. Perché proprio durante questo periodo storico?
Quella del ‘68 è stata una generazione forte e fragile al tempo stesso. Forte, perché si è sentita custode di generose illusioni, che poi il tempo ha fatalmente provveduto a smorzare. E fragile, perché quel dinamismo e quella smania di cambiare scaturivano da un malessere oscuro, mal curato dalle mitiche panacee della rivolta. In altri casi, però, oltre le astuzie dell’opportunismo, senza saperlo quei giovani, che pure sognavano falansteri filantropici, troppo spesso erano dominati da un inconsapevole timore d’essere emarginati o incompresi; e non appena hanno avuto l’opportunità di montare sul carrozzone del benessere, non hanno esitato a farlo, diventando più conservatori degli odiati bersagli borghesi.
“Eccolo là il grande scrittore, che dalla sua arte non sapeva trarre nemmeno un grammo di conforto!” leggiamo in uno dei tratti salienti del racconto, come se l’essere scrittore per Ugo significasse anche avere i mezzi necessari per affrontare alcune situazioni della vita. Lei cosa si aspetta dalla sua scrittura?
Se lo stile, scoglio inevitabile di ogni arte, non è, come vuole Proust, solo una questione di tecnica ma di visione, anch’io, intenzionato a farmi interprete di frenesie che miravano a stanare rovelli permanenti della condizione umana, sono stato portato a riflettere sulla necessità della scrittura. Che non nasce da smania di successo, vanità o ambizione, ma si pone come un “atto gratuito” che trova la sua ragione d’essere solo in un’esigenza interiore, che ne fa, più che un’elezione, una condanna, tuttavia capace di dispensare talvolta la modesta consolazione della poesia.
Eveline Bentivegna