Il 27 novembre del duemila tredici, una data e una storia. La politica dei prossimi decenni farà spesso riferimento ad un mercoledì di un tardo autunno romano in cui avvenne un fatto che cambiò la storia della repubblica. In bene o in male, ancora non si sa.
Anche perché il personaggio di cui parliamo, Silvio Berlusconi, fondatore di un partito chiamato impropriamente “ Forza Italia,” ex palazzinaro, deputato, senatore e presidente del Consiglio, nonostante il voto del senato che ne ha certificato la decadenza, conserva intatte le forze finanziarie, estesi contatti con i potentati economici e affaristici di ogni risma. E controlla l’impero mediatico, scritto e parlato, attraverso il quale si è rivolto, nell’ultimo ventennio, alle genti riversando fiumi di parole che hanno annebbiato le menti, scaldato i cuori di un popolo deluso, indignato e derubato da una classe politica travolta dalla corruzione di massa. Essa venne alla luce grazie al coraggio del pool milanese di mani pulite guidato da un magistrato di alto profilo etico morale, Antonio Borelli.
Ma il cui autentico demiurgo fu un sanguigno contadino molisano, procuratore dall’accento pittoresco e paesano e dalla incerta grammatica, che dalle aule dei tribunali parlò all’Italia provocando fenomeni di idolatria, non rari, purtroppo, nella storia dell’Italia, devianti e pericolosi per la democrazia. Il suo nome: Antonio Di Pietro. Il respiro sempre affannoso come di chi è alla ricerca del vocabolo giusto per sviluppare un concetto, raccontare una storia, urlare la sua verità al mondo attraverso corde vocali incerte tra la stecca dell’acuto e il disperato rantolio di chi non trova il verbo e la frase che conclude il suo dire.
L’uno il contraltare dell’altro. Ambedue distanti e tanto simili. Quella magia innata di parlare alle masse o, come si suole dire, alla pancia della gente, raccogliendo i sentimenti, le passioni, le aspettative, i pensieri buoni e cattivi, gli egoismi e le invidie, le delusioni e le speranze di un intero popolo indignato e offeso. L’integerrimo difensore della legalità in nome del popolo italiano, urlante e dagli istinti giacobini e l’uomo del fare che, oscurate le incipienti rughe da una magica calzamaglia, irrompe dal catodo e invade le dimore della penisola con la sua cantilenante parlata brianzola da buon padre di famiglia antico a cui affidare il destino di ognuno.
Ambedue portatori di un sogno. Giustizia e legalità per l’uno. Ricchezza senza sudore per l’altro. Si sono odiati e amati. Si sono cercati e abbandonati. Ognuno ha visto nell’altro il nemico da abbattere per l’ascesa all’olimpo del potere o la stampella per l’incerto cammino. Ambedue portatori di un cieco populismo a cui le masse popolari si affidano in momenti particolari e drammatici della vita delle nazioni. Seduttori in forme difformi. Portatori di una cultura che affida al moderno principe la soluzione di ogni male. Che si tratti della lotta alla corruttela e alla criminalità organizzata, con alti e bassi, gli storici mali della nazione dall’unità d’Italia ad oggi , o di un new deal per avviare programmi di sviluppo e progresso, il tutto, nel loro mistificante messaggio, è affidato all’uomo solo al comando in una sorta di osmosi collettiva e benefica.
L’uno, Antonio Di Pietro, è finito miseramente il 24 febbraio, annientato dal giudizio severo del popolo sul suo operato di magistrato divenuto politico politicante circondato da yes man, servi obbedienti senza arte ne parte. L’altro, Silvio Berlusconi, è stato trafitto dalle sentenze della legge, incorruttibile alle sirene e alle minacce del potente. Dell’uno non si parlerà più se non per ricordare quel tribuno del popolo arruffone e urlante nelle aule del tribunale ambrosiano ed i suoi fine settimana nei campi di proprietà in Molise ad arare la terra dei padri. Dell’altro e purtroppo, si parlerà ancora. Nel corso del loro decadimento, le dinastie, come gli imperi, presentano fenomeni di alta e inaspettata pericolosità. Sono come i vulcani. Eruttano il magma arroventato che invade la valle e il villaggio ( Pompei) per poi sonnecchiare in una illusoria estinzione e riapparire nel corso degli anni a venire con moti di lava e lapilli, ciarpami di rabbia e poteri svaniti.
Il senato, con voto palese e diretto, lo ha privato del seggio e costretto alla resa. E lui, tuttavia, non demorde. A sera di quel 27 novembre, rintanato al rifugio di palazzo Grazioli, si affaccia ad arringare la folla, peraltro sparuta, testé convenuta. I diversamente berlusconiani, dalla celebre battuta del comandante Alfano, sono additati al ludibrio per future vendette. Che possa ancora, il Silvio, attraversare il deserto del Sahara e scalare la vetta del grande vulcano non tutto o niente sarà per il fato o, come si diceva un tempo, per un destino radioso o cinico e baro. L’Italia, per ora, trattiene il respiro in attesa. Una pagina è chiusa.
Il trascorso ventennio ha lasciato macerie di inganni e speranze deluse. Ciao, Silvio. Non essere triste. In fondo, la vita e per ora, non ti è stata ingrata.