A tutti e tutte, l’abbraccio e l’augurio per l’anno che viene e un felice Natale
Anche quest’anno è già Natale.
Scendo da casa verso la stazione di Pfaeffikon in una mattina di un gelido antico. Accelero i passi per non perdere il treno delle cinque, l’unica possibilità che mi è data per raggiungere l’aeroporto in tempo per spiccare il volo verso Roma. Non mi attirano, se non per brevi sguardi, le luminarie multicolori allestite per celebrare la millenaria ricorrenza della nascita del Nazareno, il Gesù della Palestina storica. Eppure, lo spettacolo meriterebbe ben altra attenzione. La dimora dei vecchi è addobbata con la solita maestria di chi guarda alla ricorrenza con rinnovata gioia per aver attinto dal messaggio cristiano tutto il bene di cui sono stati capaci di dare nel corso della loro già lunga vita.
Il minuscolo presepe è allestito, come ogni anno, accanto alla casetta in legno con le voliere degli uccelli, come se nonna Ruth volesse accompagnare la sacra famiglia con il melodioso cinguettio delle sue creature a cui accudisce da decenni con l’amore appreso dal babbo nel corso del secolo che ci ha lasciato. Lo sfarfallio delle luci ne fa una vivente magia. Un po’ più lontano, un filo sottile congiunge le due palazzine distanti tra loro.
E su quel filo vedi scorrere un venerabile ricurvo dal peso di una grande bisaccia. Va e ritorna. Come se volesse portare ogni volta un piccolo dono e un messaggio d’amore. Più in basso, verso il viale che porta alla stazione, campeggia l’albero carpito al monte vicino su cui i piccini del villaggio hanno appeso attese e speranze per l’anno che verrà. Tutto bello e all’apparenza sin troppo sfarzoso. Ricordo i Natali della mia infanzia. I fiori di ghiaccio sulle finestre delle stanze di un freddo glaciale. Le ore in attesa a guardare all’insù. Ai primi fiocchi di neve con la speranza di potere, al più presto, sfrecciare con lo slittino dalle lucenti lamine d’acciaio fissate al legnoso telaio dalle ruvide mani di babbo Ettore. La fioca luce delle candele alle finestre delle misere case del villaggio da cui ti sembrava di percepire, che so?, un po’ di tepore.
Il gracchiare di una vecchia radio del calzolaio amico, il solo, in contrada, a possedere quel magico attrezzo da cui scaturivano suoni e parole a me così strane. E mamma, la Nilde, che a tutto pensava e faceva perché in quel giorno, accanto al perenne mistero, vi fosse un clima di gioia e speranza. IL desco non era un gran che. Bastava il pane coi fichi, o una fumante polenta arricchita da burro e formaggio, la frutta sottratta allo scrigno, un mandarino, un’arancia, per farci sentire – il babbo, la mamma, Antonietta, la mia cara sorella e chi scrive – più ricchi e felici. E quel 24 dicembre, calata la notte, assieme salivamo per l’impervia mulattiera circondata da rocce scalfitte dall’uomo e dal tempo per raggiungere la chiesa costruita nei secoli addietro sul picco a strapiombo sul greto del Livrio. Ed io, ogni volta, guardavo all’insù ammirato da tanta grandiosa dimora di Dio. Il diavolo (buono) di oggi, era, allora, un chierichetto impertinente, coccolato da Don Antonio per la sua innata capacità di servire le messe cantate nell’antico latino di cui conosceva a memoria il testo senza nulla sapere del sacro suo dire. Voleva, l’uomo di fede, che io apprendessi a suonare l’organo ligneo eretto in alto sul fondo, che a me imponeva timore e mistero per la sua maestosità.
Buon Natale anche a te, caro Don della mia giovinezza. Alle tue ossa raccolte non so dove, nel fazzoletto di terra in cui hai trovato l’eterno riposo. E buon Natale a voi, ragazzi e ragazze della Zurigo italiana. Di quella casa d’Italia in cui apprendete le lingue e culture dei nonni e dei padri. Vi accolsi a Roma con i vostri presidi e professori, non molto tempo fa. Visitaste il parlamento, il luogo in cui gli avi antichi costruirono l’unità del suolo italico. Belli; allegri; vestiti un po’ così , come s’usa oggi di qua e di là delle Alpi; spensierati nella vostra gioiosa gioventù: siete il nostro orgoglio e la nostra bandiera. Il lembo di una Italia che vive anche oltre la maestosità dei grandi monti. Ho letto nei vostri occhi la solennità della città. Di quei colli in cui, ad ogni angolo, scopri i resti dell’eternità. Persino un non so che di pudica malinconia in occasione della visita al Quirinale, per non aver potuto salutare il grande vecchio e amato Presidente, Giorgio Napolitano. Era a Napoli, purtroppo, nella città che lo ha visto crescere e formarsi alla vita come voi oggi. Ma so che vi avrebbe accolto con la gioia di abbracciare un lembo vivente d’Italia nella patria di Guglielmo Tel.
Buona fortuna a tutti. A voi, che agli albori della vita, già avete scoperto il bene delle tante culture di cui è ricca questa nostra Europa. Ragazzi di un mondo che cambia nell’abbraccio tra le tante culture di cui è permeato il nostro pianeta. O forse, è solo una speranza. È bello pensarlo nell’ora in cui ognuno di noi si sente più buono. Buon Natale e Buon Anno, con tutto il cuore.