Per tutto il viaggio le esigenze delle due creature, della cui incolumità si preoccupava, aveva fatto dimenticare per un po’ a Costantino la Britannia, e acuito la preoccupazione per la salute cagionevole di Minervina. Il bambino invece non sembrava avere ereditato niente della debolezza materna, e ostentava una voracità di vita, una tale rabbiosa volontà di affermazione, che subito si qualificava come suo figlio. È come me, pensava Costantino, e sarà degno di me. Vedi che prodigio mi hai generato, diceva talvolta a Minervina, in questo bambino che coniuga la tua bellezza col mio temperamento?! E per proteggere quelle due preziose creature, per tutto il viaggio non aveva quasi chiuso occhio, limitandosi a un riposo minimo per non crollare, e prodigando attenzioni e riguardi per condurle al sicuro.
E ora che, dopo venti giorni di marcia, il drappello aveva superato il bivio ed era scaduto il tempo dell’esitazione, la distanza da Naissus si era prodigiosamente allungata, e gli sembrava incolmabile, mentre la priorità di affidare Prisco e Minervina alle mani fidate di Elena si faceva più acuta: giacché, solo dopo essersi liberato da quella responsabilità, avrebbe potuto procedere celermente verso il padre, sentendosi alle calcagna gli sgherri di Galerio, e quelli che Severo gli avrebbero inviato contro da Mediolanum.
Che altro avrebbe dovuto del resto aspettarsi dal nuovo imperatore? Che non aveva esitato un momento, dopo l’elezione, a mostrare il suo autentico volto da despota; e appena abbrancato il potere, dopo l’abdicazione di Diocleziano, aveva preso a infuriare come un sovrano assoluto, senza considerare che per ragioni di età il primato sarebbe toccato a Costanzo. Ma Galerio teneva in così poco conto la mitezza e la precarietà del co-imperatore, che anche se Costanzo fosse riuscito a domare la malattia, già studiava come costringerlo a deporre la porpora, con l’aiuto del suo cesare fantoccio, per favorire quello che, secondo Costantino, era l’autentico favorito: Licinio. Se Galerio non aveva voluto nominare subito quell’antico compagno d’armi, che non gli aveva mai fatto mancare consigli e garanzie di fedeltà, era solo, asserisce Lattanzio, per evitare di chiamare “figlio” colui che più tardi sarebbe stato suo “fratello” e augusto. Finché un giorno, dopo aver celebrato a sua volta i vicennalia, avrebbe conferito al figlio Candidiano, spuntato anch’esso dal nulla, la carica di cesare: e circondato da fedelissimi si sarebbe assicurato una vecchiaia serena, al riparo di un muro inespugnabile.
Ancora lontano da quella data, appena abbrancato il potere Galerio si sbizzarriva per intanto a esercitarlo con licenza illimitata, gravando sui sudditi con l’arbitrio che aveva appreso dai satrapi persiani. E per non incorrere in critiche formali, aveva privato della libertà tutti coloro che in qualche modo ne adombravano il prestigio, provvedendo a degradare chi intendeva punire. In tal modo, non solo modesti magistrati erano stati messi alla tortura per questioni futili, ma aveva colpito anche notabili di cui appena temeva la disapprovazione, e costretto onorate matrone, di qualsiasi classe sociale, alla lussuria del suo gineceo.
Quanto alle modalità della pena, la crocifissione era divenuta il principale mezzo di punizione, che inchiodava i malcapitati a quattro paletti infissi nel terreno, come da tempo non si faceva più neanche con gli schiavi. Avido inoltre di divertimenti cruenti, Galerio spendeva gran tempo nell’anfiteatro, ad assistere alle prodezze compiute dagli orsi sulle vittime, i cui brandelli gli allietavano la cena con larga effusione di sangue.
Insomma l’imperatore infliggeva indiscriminatamente, a cittadini che per qualche ragione gliene sembravano meritevoli, pene che non erano mai “leggere”, come l’esilio o la miniere. Preferiva invece far bruciare, crocifiggere, o esporre alle belve, raramente usando indulgenza; e sembrava concedere un favore allorché, in considerazione di antichi servizi, comandava una morte più rapida per i reati commessi da membri del palazzo o dell’amministrazione, che venivano trapassati con lance o decapitati. Né da questa frenesia si salvavano soggetti di modesta estrazione, che non avevano ragione apparenti di temere, in quanto sprovvisti di titoli, e perciò condannati “soltanto” ad essere bruciati a fuoco lento. Secondo modalità già sperimentate con i cristiani, a costoro, fissati a un palo, dapprima si poneva sotto i piedi una fiamma moderata, affinché i muscoli, contratti dalla combustione, si staccassero dalle ossa; quindi torce venivano a rosolare ogni singola parte del corpo, mentre con acqua fredda gli si inumidivano le bocche, per evitare che rendessero l’anima troppo presto. E quando le lingue della fiamma, che avevano già lambito a lungo la superficie, penetravano finalmente nelle viscere, riducendo quelle povere membra a carcasse polverose, li si gettava a mare.
Nemmeno gli intellettuali erano risparmiati. L’eloquenza era stata messa a tacere; gli avvocati accantonati; i giureconsulti esiliati o uccisi; la poesia era considerata un’attività pericolosa, e i letterati cacciati ed esecrati come pubblici nemici. Accomodata la legge, ogni specie di arbitrio fu concesso a rozzi giudici militari, privi di assessori che potessero moderarli o consigliarli. Né è da credere che semplici sudditi uscissero indenni da tanta tenacia di abuso. Le città furono letiziate da imposte supplementari; e zelanti agenti del censo misero a soqquadro ogni angolo, suscitando l’immagine del disordine e della più orrenda tirannia. Ogni pezzo di terra fu misurato; le viti e gli alberi da frutta numerati; redatti puntigliosi elenchi degli animali. La popolazione fu obbligata ad assemblarsi nelle piazze, dove risuonava il rumore della tortura e dei flagelli. Là i figli venivano appesi, affinché rivelassero tesori nascosti dei padri; gli schiavi erano costretti sotto tortura a denunciare i padroni; le mogli a testimoniare contro i mariti. E se proprio non si trovavano prove, i sospettati venivano seviziati fino all’ammissione di proprietà inesistenti. Né gioventù né vecchiaia, né morbo né malanno, godevano di esenzione. I malati e gli infermi, impossibilitati a camminare, venivano trascinati di peso; se ne esaminava l’età, e a seconda della logica del sopruso si aggiungevano anni o se ne toglievano a piacimento. Ovunque non era che lutto e tristezza.
Ciò che Roma non aveva fatto neanche contro i nemici di guerra, Galerio se lo permetteva con i romani stessi, ai quali schiumava di far scontare le tasse che Traiano aveva imposto ai suoi antenati daci. Nemmeno dietro compenso in denaro una testa si poteva dire al sicuro, dal momento che, in caso di sostituzione dei magistrati, ai vecchi tributi si aggiungevano i recenti, visto che i nuovi censori, anche quando non trovavano nulla da tassare, inventavano nuovi balzelli, perché la loro funzione non sembrasse inutile.
Infine, per beffa suprema, si escogitò che le imposte dovessero essere pagate anche per i morti: di modo che se non era permesso vivere senza tributi, non era permesso neanche morire. Da esse, a rigore, avrebbero potuto essere esentati solo i mendicanti, che la stessa miseria schermava dagli esattori. Ma Galerio, commenta sarcastico Lattanzio, era tanto misericordioso e mansueto, da non volere assolutamente consentire che restassero nell’indigenza. E affinché non si potesse dire che sotto la sua amministrazione esistessero accattoni, li faceva radunare; e, dopo averli fatti caricare sulle navi, ordinava che fossero portati al largo, e pietosamente colati a picco.