Sergio Rizzo sul Corriere della sera ci ha ricordato che nel 2012 Monti approvò in Consiglio dei ministri un decreto che impediva ai parlamentari nazionali e regionali di percepire il vitalizio prima dei 66 anni e con meno di dieci anni di mandato. Nel corso della discussione, la solita manina nascosta introdusse velocemente un emendamento che fu approvato da tutti e che ripristinava ciò che il Consiglio dei ministri aveva cancellato. La conseguenza è che quest’anno i vitalizi della Regione Lazio sono aumentati, percepiti a 50 anni e con meno di tre anni di mandato. Appena dopo l’approvazione del decreto in Cm, la gente ebbe l’impressione di un cambiamento, invece le cose sono rimaste esattamente come prima. Le forze politiche hanno l’abilità dei più straordinari prestigiatori.
Non è cambiato nulla non solo nella rete fittissima di privilegi, bonus, prebende, interessi che riguardano centinaia di migliaia di funzionari, dirigenti, faccendieri, imboscati; non solo nelle abitudini e nei comportamenti dei singoli e delle istituzioni; non solo nei privilegi più smaccati, si pensi alle decine di migliaia di distaccati sindacali pagati dalle fabbriche o dallo Stato e in servizio, appunto, presso i sindacati; non solo, ancora, nell’organizzazione sanitaria e dei servizi, ma non è cambiato nulla neanche nel modo di funzionare delle istituzioni.
Verso la metà degli anni Ottanta, l’allora presidente del consiglio Bettino Craxi parlò della necessità di una “Grande Riforma” costituzionale per l’ammodernamento della Carta e delle istituzioni. Ebbene, da allora sono passati esattamente 29 anni e nessuna “Grande Riforma” è stata fatta. L’unica realizzata, quella del titolo V della Costituzione, fu fatta con la maggioranza di un solo voto nel 2001 sotto il governo Amato ma, a giudizio di tutti, compresi gli autori, quella riforma è stata peggiorativa, al punto che lo Stato e le regioni sono in perenne e paralizzante conflitto di competenze. La riforma, in realtà, fu approvata nel 2005, come abbiamo ricordato più volte, e prevedeva una serie di punti importanti – maggiori poteri al premier, diminuzione di deputati e senatori, il Senato delle regioni con competenze diverse dalla Camera, eccetera – ma detta riforma fu bocciata dal referendum popolare del giugno 2006. Da allora se ne continua a parlare senza risultati.
Vogliamo dire che in Italia il cambiamento vero è materia di dibattiti e di convegni ma mai di provvedimenti definitivi, bloccati dalle sabbie mobili degli interessi di tanti che brigano affinché ogni cosa rimanga immutabile. Va detto, perciò, con estrema chiarezza che la decisa volontà di Renzi di volere a tutti i costi e subito un cambiamento reale e radicale in tema di riforme va sostenuta da tutti coloro che coltivano ancora la speranza in un futuro migliore. Mettersi contro il suo stesso partito e contro i vari altri partitini che ragionano in termini non d’interesse dell’Italia ma della propria sopravvivenza elettorale è davvero un atto di coraggio, perché sfida il tran tran quotidiano di governo, partiti e istituzioni – abituati a vivacchiare – anche a costo di provocare uno sconvolgimento generale degli attuali equilibri.
Renzi e la sua voglia di cambiamento è l’ultima spiaggia. Se ci riuscirà, anche alleandosi con chi può e vuole sostenerlo in quest’impresa, il Paese potrà averne grande beneficio; se non ci riuscirà, sarà davvero un peccato, imputabile non a lui, ma a chi il cambiamento non l’ha voluto.