Il presidente della Repubblica pone fine agli indugi e alle incertezze di Monti e di Letta e pone la questione dei due marò all’attenzione delle Cancellerie europee, delle altre potenze, Usa e Russia comprese, e dell’Onu. La Corte Suprema, spazientita verso il governo indiano, rinvia la decisione fino a lunedì 10 febbraio. L’Italia chiede che i marò tornino in Italia
Giorgio Napolitano, soddisfatto per il buon avvio delle riforme, preoccupato per il caos creato dai grillini in Parlamento, imperturbabile di fronte all’impeachment presentato dai grillini a suo carico (“Faccia il suo corso”), distaccato di fronte al rimpasto sì rimpasto no di Letta e Alfano che lo vogliono e di Renzi che non lo ritiene di sua competenza e decisione, si è occupato la settimana scorsa della vicenda dei due marò, entrando con tutto il suo peso politico istituzionale nelle Cancellerie europee, Usa e Russia comprese, e negli organismi internazionali come l’Onu, senza trascurare il pressing sulla Corte Suprema di Nuova Delhi e sul governo indiano.
L’occasione gli è stata offerta dal ritorno di una delegazione interparlamentare, guidata dai presidenti delle Commissioni Estere della Camera e del Senato, Casini e La Torre, che si erano recate in India in visita presso i due soldati italiani lì trattenuti dalle autorità indiane con l’accusa di aver ucciso due pescatori.
Come forse si ricorderà, il 15 febbraio 2012 dalla nave Enrica Lexie, in acque internazionali, vengono sparati in acqua dei colpi per intimare l’alt a una imbarcazione che si stava avvicinando pericolosamente alla petroliera. A bordo della Enrico Lexie c’era un gruppo di marò messo a disposizione della Marina e ingaggiato per prevenire gli attacchi dei pirati, in quelle e in altre zone particolarmente attivi ai danni delle navi straniere. Con uno stratagemma la polizia indiana riesce a far rientrare la nave nel porto, dove i due vengono arrestati. Inizia così un rimbalzo di responsabilità tra la Corte Suprema di Nuova Delhi, cui si è appellata l’Italia, e il tribunale del Kerala, lo Stato indiano che riteneva di essere competente del caso. L’India, intanto, rifiuta la titolarità dell’azione penale ad un tribunale italiano secondo le regole dei trattati internazionali. Il ministero degli Esteri italiano offre un contributo in denaro alle famiglie dei pescatori, che ritirano la denuncia, ma il tribunale non blocca l’iter giudiziario. Il Mae fa ricorso alla Corte Suprema di Nuova Delhi che dopo mesi stabilisce che ad occuparsi del processo deve essere un tribunale formato dalle autorità di governo, la cui composizione dovrà essere stabilita dalle autorità stesse, che ancora non lo hanno fatto dopo quasi un anno di rinvii e ritardi. L’anno scorso, i due marò ottennero la licenza di passare il Natale in Italia, ma alcuni giorni prima del rientro, dal Mae fu diffusa la notizia che non sarebbero rientrati. Monti, dapprima fu d’accordo, successivamente non diede l’autorizzazione e i due marò rientrarono in India. Intanto, il ministro degli esteri si dimise in contrasto con la decisione di Monti. Dopo le elezioni, la questione fu gestita sempre dal Mae, ma nel corso degli ultimi mesi le trattative si sono arenate nelle questioni di forma. La verità è che il contenzioso fu sottovalutato e mal gestito dal governo: al posto di porre a livello internazionale la vicenda, l’Italia pensava di risolverla con un indennizzo alle famiglie. Anche l’attuale ministro degli Esteri, Emma Bonino, è caduta nello stesso errore, quello di credere di poter risolvere alla buona la questione.
Di fronte alle pressioni provenienti dalle famiglie, dalla società civile, e di fronte all’imbarazzo che la vicenda cominciava a creare al governo, c’è stata la visita di una delegazione interparlamentare in India con lo scopo premere sulle autorità affinché si sbloccasse la paralisi diplomatico-giudiziaria. L’India deve dare una risposta all’Italia, a cominciare dai capi d’accusa che riguardano i due marò, mai formulati. Si sa solo che in India c’erano e ci sono due tesi: giudicare i due marò in base al cosiddetto “Sua Act”, cioè perseguirli per terrorismo o in base al semplice omicidio. Perseguirli per terrorismo equivale ad accusare l’Italia di essere un Paese che sponsorizza i terroristi (i marò sono soldati dell’esercito italiano), un’accusa che l’Italia non può accettare.
Ecco, questi sono in sintesi i termini della questione alla vigilia del pronunciamento della Corte Suprema di Nuova Delhi. Al di là, però, della sentenza della Corte Suprema, che ha deciso di concedere una settimana – una e non più di una, fino al 10 febbraio – al governo per formulare l’accusa. L’Italia, comunque, ha chiesto alla Corte che i marò siano autorizzati a tornare in Italia. Il merito di Napolitano è di aver posto la vicenda, come detto, sul tavolo delle Cancellerie dei Paesi europei e degli Usa e della Russia, Onu compresa, ottenendo l’attenzione di Barroso e di Obama, per citare le due più autorevoli prese di posizione, ma ha sviluppato anche un’iniziativa mediatico-politica nei confronti dell’India, dando risonanza internazionale ad una telefonata fatta ai due marò alla presenza della delegazione interparlamentare che si era recata da lui per informarlo sull’esito della missione.
Napolitano ha espresso la vicinanza dell’Italia ai due marò e, dopo aver manifestato la sua convinzione che l’India ha finora gestito la vicenda “in modo contraddittorio e sconcertante”, ha detto loro: “Vi riporteremo a casa con tutti gli onori”.
Tra le iniziative prese in considerazione dal presidente c’è quella di porre la questione nelle sedi giudiziarie internazionali. L’India, secondo l’Italia, ha calpestato i trattati internazionali, dunque dovrà essere un arbitrato internazionale o un tribunale riconosciuto dall’Onu a doversene occupare, nel qual caso l’India dovrà rilasciare i due soldati e a metterli a disposizione della sede giudiziaria competente.