Solo cinque anni fa, nel novembre del 2009, gli svizzeri hanno detto no all’iniziativa “Per il divieto di esportazione di materiale bellico”, nel il Governo sosteneva di voler tenere la prassi restrittiva esistente. Oggi questa posizione è cambiata.
L’Ordinanza sul materiale bellico (OMB) prevede che non possano essere riforniti di armi e munizioni i Paesi in cui non vige il rispetto per i diritti umani, così aveva deciso il Consiglio federale alla fine del 2013, e riguardava in particolare Paesi come l’Arabia saudita, l’Afghanistan e il Pakistan. I dati indicano, intanto, che la cifra d’affari dell’esportazione di armi svizzere sfiora il miliardo di franchi l’anno, oltre 800 milioni di euro, grazie a veri e propri gioielli quali il blindato per il trasporto di truppe, Piranha, o gli aerei d’addestramento, Pilatus. Ora il Nazionale ha approvato una mozione con 94 voti a 93, che vuole allargare l’esportazione di armi belliche anche ai Paesi con rischio di violazione dei diritti umani.
Starebbe alle autorità esaminare ogni caso singolarmente, perché il parlamento ha deciso di proibire l’esportazione soltanto se il rischio è reale ed elevato. Alla base di questo cambiamento di rotta ci sarebbero le acque agitate su cui sta navigando la situazione economica attuale dell’industria bellica svizzera: le ditte esportatrici, infatti, sarebbero svantaggiate in confronto alla concorrenza europea. A tal proposito vengono presi in considerazione Paesi come la Germania o l’Italia, dove le regole a tal proposito sono più disinvolte. Diversi interventi sulla questione premono sul fatto che la Svizzera sia in una posizione addirittura peggiore di paesi neutrali come la Svezia o l’Austria. Walter Müller del PLR sostiene che per le ditte svizzere oggi la distribuzione in Arabia saudita di velivoli usati per sistemi di difesa è proibita, anche se l’utilizzo di questi mezzi non viola i diritti umani. E Raymond Clottu dell’UDC dichiara che la situazione è precaria e che sarebbero migliaia i posti di lavoro coinvolti direttamente o indirettamente all’affare.
Inoltre, il ministro dell’economia, Johann Schneider-Ammann, ha sottolineato che l’industria degli armamenti è importante anche per la difesa nazionale. Gli oppositori all’allentamento alla restrizione, hanno avvisato che la politica moderata della Svizzera sarà messa in dubbio e che la buona reputazione del Paese risulterebbe compromessa. Intanto, di fronte al miliardo di franchi l’anno sfiorato dal mercato dell’esportazioni di armi svizzere Amnesty International si esprime in tal modo: “È vergognoso che la Svizzera dia priorità agli interessi economici, mettendo in pericolo la sua reputazione e il suo ruolo di pioniere, in materia di diritti umani”. E continua il deputato socialista, Pierre-Alain Fridez “la notizia dell’utilizzo di munizioni di fabbricazione svizzera contro i manifestanti, in piazza Maïdan, a Kiev, è lì a dimostrare la delicatezza della questione”.
Si tratta di una questione altamente delicata. Quando ci si trova a dover decidere tra “Soldi o diritti umani” la scelta non sembra davvero così difficile perché entrano in gioco diversi fattori, in primis il fatto che non dovrebbe essere così faticoso scegliere se dare un segno di pace e un sostegno ai Paesi toccati da crisi, povertà e guerra oppure cercare di accontentare la lobby di fabbricanti di armi. Non sembra davvero così problematico rispondere a quesiti del genere, almeno non per Raymond Cottu, esponente del partito di destra Unione Democratica di Centro, quando sostiene che ”le disposizioni attualmente in vigore hanno portato a una sensibile diminuzione dei contratti, per le industrie del settore, con il rischio che 10 mila dipendenti debbano essere lasciati a casa. Dal nostro voto non dipende sicuramente la pace del mondo, ma indubbiamente la serenità di numerose persone, in Svizzera”.