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22 November 2024
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Interviste

“Parti di me che non conoscevo”

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giordano1Intervista a Paolo Giordano il giovane scrittore imposto al grande pubblico con il suo primo romanzo, La solitudine dei numeri primi. L’autore sarà il protagonista di un incontro culturale presso i locali della Literaturhaus di Zurigo (19 marzo alle ore 19:30) per la lettura di alcuni brani del suo ultimo romanzo di successo, Il corpo umano 

La solitudine dei numeri primi ti ha portato un successo inaspettato ma allo stesso tempo sta creando grandi aspettative nei confronti de Il corpo umano, tuo secondo romanzo. Come stai vivendo le ultime presentazioni al pubblico del nuovo romanzo?

Le presentazioni volgono al termine. Il libro è uscito in Italia nel 2012 e sto ormai seguendo il libro soltanto all’estero. Ho incontrato un pubblico talvolta diverso da quello a cui La solitudine dei numeri primi mi aveva abituato e questo mi è piaciuto. Con il tempo, mi sono accorto di non avere più troppa voglia di parlare “intorno” ai libri, perché spesso mi capita, facendolo, di entrare troppo nel personale e perfino di snaturarli un po’. Capita, credo, soprattutto quando è trascorso un certo tempo dal momento in cui li hai finiti, perché la tua vita è andata avanti, la prospettiva si è spostata e tu non sei più in grado di tornare allo stato in cui eri scrivendo. Così ho scelto prevalentemente di leggere delle parti de Il Corpo umano in pubblico e di lasciare che fossero quelle a incuriosire oppure no.

Il corpo umano arriva dopo 5 anni dal tuo primo libro: una lunga genesi. Ci vuoi raccontare cosa è accaduto nel corso di questo lungo periodo creativo?

La mia vita è cambiata sotto molti aspetti, innanzitutto perché ho lentamente accettato che la scrittura diventasse il mio mestiere e che tutto il resto, in un certo modo, le ruotasse attorno. Ma ci è voluto del tempo per metabolizzare i cambiamenti. Mi sentivo costantemente sotto esame e questo è stato un ostacolo alla scrittura di un secondo libro. Anche per questo, credo, ho scelto alla fine l’ambiente della guerra, di una base militare minacciata dal nemico. Sentivo di essere anch’io trincerato da qualche parte. Ma, a un certo punto, ho trovato il coraggio di avventurarmi fuori.

In questo nuovo romanzo partendo da un grande conflitto quale è la guerra (in Afghanistan) indaghi i conflitti interiori e più insidiosi dell’essere umano. Come nasce questo connubio e come riesci a portare a compimento i due livelli di narrazione, quello della guerra (gli animi comuni dei militari di fronte gli eventi della guerra) e quello personale dei conflitti interiori?

Il romanzo è nato come un puro libro di guerra. Più andavo avanti nella scrittura, però, più sentivo l’esigenza di qualcosa che portasse quella guerra così lontana e in un certo modo astratta “addosso” al lettore, un legame che permettesse di addentrarsi nelle sue logiche in modo più istintivo. Così ho iniziato a indagare le vite dei protagonisti fuori dal contesto militare, a cercare le guerre che ognuno serbava dentro di sé. Mi sono accorto dell’esistenza di una miriade di conflitti, conflitti che coinvolgono ognuno di noi, non troppo dissimili dalla guerra armata, ai quali diamo però nomi diversi.

La copertina del libro reca un’immagine particolare. Chi sono questi ragazzi, cosa rappresentano e come è avvenuta la scelta di quest’immagine?

La ragazza che compare in copertina è la stessa che compariva su La Solitudine dei numeri primi, ed è la fotografa che ha realizzato entrambi gli scatti. Si tratta di una ragazza olandese della quale ammiro il grande talento. Qualcosa nelle sue foto riesce a catturare l’atmosfera che io sento dominante nelle mie storie. Il ragazzo che lei abbraccia è suo fratello, che nella vita reale è proprio un soldato. Quando l’ho scoperto, mi è sembrato un segno impossibile da ignorare. Anche la copertina del mio terzo libro, che sta per uscire in Italia, avrà in copertina un autoscatto della stessa fotografa olandese. Mi piacerebbe che la nostra collaborazione continuasse a lungo. Lo trovo romantico.

Qual è stata la tua sensazione dopo aver terminato Il corpo umano? Credi di essere riuscito a “svuotarti” di tutto quello che avevi dentro?

Spero non proprio di tutto tutto. Altrimenti sarebbe un problema serio… In realtà, credo che la sensazione di compiutezza di un libro che si è scritto, non riguardi troppo l’essersi “svuotato” di qualcosa, quanto l’essere stato in grado, a un certo punto, di andare al di là delle intenzioni che si avevano all’inizio, in un luogo inesplorato innanzitutto per se stessi. Con Il corpo umano mi è successo. Il libro mi ha trascinato in parti di me e della mia scrittura molto lontane da quelle che conoscevo.

Come ti aspetti che il romanzo venga recepito, quali sensazioni ed emozioni vorresti che suscitasse al pubblico?

Non è sano cercare di anticipare le reazioni dei lettori. Altrimenti si finisce per farlo anche scrivendo e si rende la propria scrittura manipolatrice. Quello che mi auguro è che chi legge riesca a sfuggire dai condizionamenti della cronaca e di ciò che sappiamo su questa guerra così attuale. È importante, credo, per addentrarsi davvero in questa storia, abbandonare l’idea che Il corpo umano sia un romanzo realista e cercarne invece i simboli, le analogie, che sono il suo vero centro.

Eveline Bentivegna

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