Mentre Costantino, nella tranquillità dell’anonimato e delle tante precauzioni prese, assapora l’ultima notte in Gallia, noi ne approfittiamo per alzare il velo su qualche impulso che aveva turbato le meningi di altri personaggi che, oltre agli affetti più teneri della famiglia, avevano in quella fuga visitato il suo spirito. Volti, balenati nella sua fantasia ora con rispetto, ora con timore, ora con rabbia o rancore; persone nelle cui indoli indovinava progetti discordi, ognuna turbata da un intimo moto di ambizione o potere, di controllo o sconforto: ma tutte curiosamente destinate a intersecare il suo cammino.
A partire da Diocleziano, che durante la cerimonia di abdicazione, seguita da quella della nomina dei cesari, si era mostrato riflessivo e assente, come immerso in un vortice di scoramento e di fatalistica rassegnazione. Non poteva supporre, Costantino, la battaglia che si svolgeva nell’animo inquieto di chi, prima di tutti, intuiva cosa sarebbe accaduto di là a poco, e che dopo vent’anni anni di concordia fra i due imperatori vedeva profilarsi una catastrofe che non aveva più la forza di evitare, avendo smarrito ogni fiducia nella ragione e nella inalterabilità della sua creatura.
In disaccordo con la tesi di Eusebio, secondo cui Diocleziano si era ritirato dal potere quando aveva disperato di poter conseguire un successo risolutivo sui cristiani, nel volume precedente si è cercato di proporre delle motivazioni più intime a questa rinuncia. Del resto la presenza della setta nell’impero, al momento del suo ritiro, non era tale da fargli temere il fallimento della sua azione; e non poteva certo intuire l’epocale sterzata che tra qualche anno Costantino avrebbe impresso alla questione. Ciò che invece intravedeva, dallo sconfinato eremo di Salona, erano le brecce che nel sistema da lui ideato stavano per aprirsi uomini insaziati di potere, e spinti da assilli personali, dietro cui l’interesse superiore dello Stato passava in seconda piano.
Era pur vero che anche Massimiano, come lui e su sua insistenza, si era ritirato a vita privata in una villa della Lucania: ma il suo umore imprevedibile e la tendenza ai colpi di testa non avrebbero consentito a nessuno di supporre quell’uscita di scena veramente definitiva. Tanto più che, se nel suo ritiro Massimiano aveva portato con sé tutta la famiglia, compresa la piccola Fausta di cui presto dovremo occuparci, a Roma era rimasto il figlio Massenzio. Lo scontroso e testardo ragazzo, che Costantino aveva già sguardato a Mediolanum, era ormai diventato un abile e spregiudicato condottiero, sulle orme del padre che non amava, ma di cui condivideva il cinismo e l’inclinazione alla crudeltà. Il quale, come figlio di un augusto dimissionario, e del tutto indifferente alle clausole della tetrarchia, aveva subito dato ad intendere che si aspettava la nomina a cesare di Costanzo, senza curarsi che Costantino, che ne era il figlio, non sarebbe certo restato a guardare.
Attese, peraltro, andate entrambe in frantumi, quando Galerio, appena sollevato alla porpora imperiale, aveva disposto le successioni secondo un piano tessuto in segreto, e di cui fino all’ultimo momento non aveva fatto trapelare nulla. Così che, sperando di concretizzare insieme i suoi disegni anticristiani e le sue aspirazioni al dominio assoluto, cogliendo tutti di sorpresa, aveva innalzato al cesarato due sue fedelissime pedine, nelle persone del suo oscuro nipote Massimino e del dissoluto Severo, che così sottraevano ogni speranza sia a Massenzio che a Costantino.
Quest’ultimo, allora, aveva chiesto all’imperatore di raggiungere il padre in Britannia, che peraltro l’aveva più volte reclamato; ma Galerio, sapendo che Costanzo era incline a favorirlo, si era sempre rifiutato di lasciarlo partire, aumentando in Costantino, che già aveva visto sfumare la nomina a cesare, la frenesia di correre a combattere accanto al padre malato, paventando che nel caso in cui Costanzo fosse morto prima, Severo sarebbe diventato imperatore, senza che lui potesse fare nulla.
Tutto del resto lasciava credere che quella morte non dovesse essere lontana, come tradiva anche il tono allarmato col quale Costanzo, nelle lettere a Galerio, lo pregava di inviargli il figlio. Ma l’augusto nutriva troppa diffidenza verso quel giovane che già così ne offuscava il prestigio; e più volte gli aveva tramato contro, non osando nuocergli palesemente, nel timore di una rivolta dei truppe, dove Costantino era molto popolare. Invano, sotto il pretesto di esercizi o divertimenti, o di altre pericolose azioni di coraggio, aveva esposto al pericolo quell’odioso individuo, che invece sembrava invulnerabile. Infine, non avendo altre scuse per trattenerlo, aveva deciso di affidargli un incarico di comando sui reparti di Drobeta, sperando al contempo di placarne la frenesia, toglierselo di torno, e esibire a Costanzo una valida motivazione del fatto che non poteva accontentarlo. Senza naturalmente dire del suo più intimo augurio, che una felice congiuntura di eventi lo sbarazzasse di entrambi: Costanzo, portato via dalla malattia, e il suo spavaldo figliolo trapassato da una freccia.
Nell’abbandonarsi a queste vaghezze, però, Galerio ignorava che Costantino, altrettanto diffidente, stava preparando a sua volta un piano di fuga, che gli consentisse di sottrarsi agli ordini del despota, di raggiungere il padre in Britannia, e di mettere in salvo la famiglia. E ignorava ancora che mentre lui, dopo aver fissato la data della partenza, premeditava di farlo precedere da una lettera a Severo perché lo arrestasse, Costantino, subodorato il tranello, era precipitosamente fuggito nella notte, dopo essersi organizzato con un drappello di fidatissimi, pronto a seguirlo ai confini del mondo.
E quando Galerio, che nel giorno previsto per la partenza, dopo aver prolungato ad arte il riposo, aveva ordinato che gli comparisse davanti, non poté che apprendere, con stupore e furore, che a Nicomedia non ve n’era più traccia. Tuttavia, ancora pensando che il fuggitivo, benché insubordinato, si stesse dirigendo verso Drobeta, evitò di mettergli subito alle calcagna un plotone: e questo consentì a Costantino qualche giorno di vantaggio, prima che l’imperatore si accorgesse della sua diserzione, e del fatto che a Drobeta non sarebbe mai giunto.