Il ritiro di Diocleziano a vita privata non aveva certo messo fine alle persecuzioni contro i cristiani: le quali, al contrario, presero a imperversare in maniera più cruenta, ora che il potere era passato nelle mani di Galerio, degnamente coadiuvato dal nipote Massimino. E se si eccettuano le zone sottoposte al comando di Costanzo, dove furono complessivamente contenute, le angherie più truci dovevano ancora venire. Ci fu un paese, però, in cui, già prima che esse iniziassero, e a dispetto di Galerio che del suo re era stato amico e protettore, già nel 301 era imprevedibilmente stato introdotto il cristianesimo come religione di Stato. Ed era l’Armenia: il paese che tra l’altro, ancora un secolo fa, anche per questo avrebbe subito un feroce genocidio; e dove, dopo tanti sforzi, e proprio grazie a Diocleziano, Tiridate era finalmente riuscito a riconquistare il legittimo trono.
L’Armenia, invero, non era un territorio dell’impero, anche se Roma, per la sua privilegiata posizione di transito, e per la ricchezza del territorio, vi esercitava un protettorato aspramente contrastato, e talora avvicendato, da quello persiano. Capostipite della nazione, secondo la leggenda, era stato Hayk: un discendente di Noè, che, dopo aver assistito alla costruzione della Torre di Babele, aveva sconfitto il re assiro Nimrod presso il lago di Van. Dalla sua stirpe proveniva il condottiero Armenak, dal quale derivava il nome del paese. Sollevatasi quindi a impero regionale, l’Armenia nel I secolo a.C. si estendeva dalle coste del Mar Nero al Mediterraneo, allorché, conquistata nel 36 a.C. da Pompeo, da allora era divenuta una costante posta in gioco fra romani e persiani.
Malgrado il suo territorio prevalentemente montuoso, senza sbocchi al mare e denso di vulcani spenti, e benché soggetta a frequenti terremoti (l’ultimo dei quali, nel dicembre 1988, ha provocato oltre 25.000 vittime), la regione era ricca di acque dolci. A partire dal grande lago Sevan, posto a un’altezza di 1900 metri, da cui nasceva il fiume l’Hrazdan, che attraversava la capitale Yerevan, per sfociare nell’Aras, confinante con l’attuale Turchia; mentre sul versante opposto, sulla via per la Georgia, in una stretta gola a nord, scorreva il Debed: per non dire che persino i grandi corsi fluviali che erano stati culla delle civiltà mesopotamiche, il Tigri e l’Eufrate, si trovavano allora nel territorio armeno. Questa felice ubicazione incideva anche sul clima; le catene montuose fermavano le influenze marine, determinando estati calde e inverni freddi; le precipitazioni variavano da zona a zona. Ma era soprattutto il passaggio obbligato verso il Caucaso e l’Oriente che interessava sia ai romani che ai persiani: il che spiega perché tanto si contendessero quell’aspro territorio.
Come L’Armenia fosse giunta ad essere la prima nazione ad accogliere il cristianesimo come religione ufficiale, e prima che le persecuzioni fossero scatenate, è lo storico Agatangelo a narrarcelo. È lui a riportare fantasiosamente che la conversione del suo re Tiridate era avvenuta in seguito alla guarigione da un male crudele, per miracolosa intercessione del suo amico-nemico Gregorio. E anche se il racconto è zeppo di imprecisioni, e non brilla per senso critico, presenta però i caratteri di una favola non priva di suggestione. Così che, mescolando realtà e leggenda, sia per il fascino dei soggetti coinvolti, e sia per la storicità dell’evento, ci piace rinarrare, sulla scorta di Agatangelo, la maniera rocambolesca attraverso cui l’indomito principe, che abbiamo più volte incontrato, fu indotto alla conversione sua e della sua gente.
Già sappiamo come Shapur, per lavare l’onta della sconfitta subita dai romani, nel 258 aveva occupato l’Armenia, dopo averne fatto assassinare il re Cosroe per mano di Hanak, il cui figlio Gregorio era amico del principe Tiridate; e aveva posto il paese sotto il proprio protettorato. Non era riuscito però a catturare il piccolo erede: che, rifugiatosi presso i romani, aveva alimentato per decenni l’amor patrio, cullando per tutto il periodo dell’esilio il sogno di ritornare nella sua terra, a regnare su un popolo libero. La caduta dell’Armenia, di fatto, aveva segnato una pericolosa breccia nella difesa orientale di Roma: al punto che l’imperatore Valeriano si era messo personalmente al comando dell’esercito, per fare una drammatica fine come predella di Shapur. Né aveva potuto rimediarvi Caro, fulminato a Ctesifonte; né Aureliano, morto prematuramente in un congiura.
Ma Diocleziano, nel consiglio tenuto a Salona dopo la morte di Carino, aveva dato la parola direttamente a Tiridate, la cui causa era stata perorata da Galerio e Licinio. E da lui aveva appreso la situazione dell’Armenia, che il principe spodestato aveva dipinto come fedele alleata di Roma, ma i cui abitanti si trovavano assoggettati a leggi straniere, orripilati dai monumenti elevati a insulto della propria libertà. Tiridate aveva inoltre vantato la nobiltà della sua gente, su cui il nemico riversava l’odio di un rigore implacabile; ne calpestava i valori; abbatteva le statue dei sovrani e irrideva alle immagini sacre del Sole e della Luna. Così che tutta una nazione, a sentirlo, ulcerata da tante ingiurie, intendeva armarsi in difesa dell’autonomia e della sovranità, in attesa dell’ora del riscatto. Consapevole della posizione cruciale dell’Armenia, e non insensibile alla vibrazione d’amor patrio, Diocleziano si era allora lasciato persuadere alla necessità della sua liberazione; e aveva promesso a Tiridate che non avrebbe mancato di aiutarlo a riconquistarne il trono.
E così, quando tre anni dopo aveva effettuato una spedizione sul confine persiano, era riuscito a strappare a un Bahram indebolito da questioni interne riconferme sulla volontà di mantenere rapporti di amicizia con Roma. E aveva ottenuto, a riprova delle buone intenzioni del re persiano, che Tiridate tornasse ad occupare, dopo oltre trent’anni di esilio, quel trono che un giorno era stato del padre. E Tiridate, postosi al comando dei fuorusciti, era rientrato trionfalmente nella sua terra; mentre, alla sola notizia del suo approssimarsi, tutta l’Armenia veniva percorsa da un moto di entusiasmo, e si disponeva ad accoglierlo con genuine manifestazioni di gioia e di ardore patriottico. Risvegliati dal torpore della viltà, ma ammantati del vischiume dell’ipocrisia, persino i nobili, che una volta avevano sacrificato il proprio re al furore di Shapur, ambiguamente contriti, si raccolsero intorno al principe ritornato. Il quale, non potendo vendicare la morte del padre sull’assassino Hanak, che intanto era morto, ne aveva comunque accolto benevolmente il figlio Gregorio, che era stato suo amico di infanzia, e che l’aveva seguito nell’esilio. Ma con ciò aveva anche gettato le premesse di un fecondo contrasto.