“L’80% dei feriti sono civili, per la maggior parte donne e bambini” denuncia Orab Fuqaha, responsabile dell’ufficio stampa della Mezzaluna rossa palestinese
Nuovi raid sono stati messi a segno lunedì mattina dall’aviazione israeliana nella Striscia di Gaza, nel settimo giorno dell’operazione Barriera protettiva lanciata da Israele per fermare il lancio di razzi da parte dei gruppi palestinesi che ha causato finora 172 morti e almeno 1.130 feriti. In vista di una possibile offensiva di terra da parte di Israele, circa 17.000 persone hanno abbandonato le proprie case nel nord della Striscia di Gaza e hanno trovato rifugio presso le sedi delle Nazioni Unite. Gli attacchi di lunedì hanno preso di mira siti delle Brigate Ezzedim al-Qassam, braccio militare di Hamas, senza fare vittime. Per la prima volta dall’inizio di questo nuovo conflitto, un razzo lanciato dalla Siria è caduto sulle alture del Golan occupate da Israele, senza fare vittime; l’esercito israeliano ha risposto con colpi di artiglieria contro postazioni delle forze regolari siriane. Stando a quanto riferito dall’esercito israeliano, “diversi razzi sono stati lanciati dal Libano sulla Galilea occidentale”, senza fare feriti. Anche in questo caso le forze armate dello Stato ebraico hanno risposto con colpi di artiglieria e denunciato il caso alle forze Onu. Israele ha colpito Hamas anche in Cisgiordania, arrestando cinque leader del movimento a Nablus e Jenin, stando a quanto riferito da fonti della sicurezza palestinese. Intanto, sono circa 715 i razzi che hanno raggiunto Israele e oltre 160 quelli intercettati, al momento non si contano vittime.
“Qui sono in atto disastri umanitari di un’intera popolazione”. Meri Calvelli, cooperante italiana che conosce la terra palestinese e i suoi ‘dolori’ da più di dieci anni, denuncia a voce alta come la Striscia di Gaza sia il “luogo in cui viene sperimentata la punizione collettiva”, è anche oggi a Gaza City ed è reduce da una visita in una delle scuole che l’Unrwa ha aperto per dare rifugio ai palestinesi che hanno lasciato il nord della Striscia di Gaza dopo gli avvertimenti dell’Esercito israeliano. Per Israele è da qui che è partita la maggior parte dei missili sparati contro le città israeliane. Meri Calvelli racconta in un’intervista telefonica ad Aki-Adnkronos International di “nonni arrivati” a Gaza “su un carretto mentre cadevano le bombe”, di “famiglie intere con molti anziani e bambini, tanti disabili, di gente povera che lavora la terra, di gente arrivata con i ciuchi”, di gente che dietro alle foto che hanno riempito la stampa internazionale si chiede: “Ma noi cosa abbiamo a che fare con tutto questo? Ci chiamano ‘terroristi’. Siamo solo povera gente che vuole stare nella sua terra”.
La cooperante del Centro Italiano di Scambi Culturali di Gaza è stata nella scuola di Nasser Street a Gaza City e parla delle “difficoltà” di chi ha lasciato la propria casa dopo l’avvertimento israeliano, di chi invece “vuole restare” e della “macchina umanitaria che non si muove immediatamente, a parte l’azione di alcuni volontari, degli aiuti che ancora non arrivano in grande quantità”. “A sud di Beit Lahia ci sono molti contadini, sono poveri, è gente che in città non viene quasi mai”, spiega, tentando di far comprendere al contempo le ragioni di chi non ha voluto abbandonare le proprie mura perché “se proprio deve morire, vuole morire nella sua casa”. Dalla Striscia di Gaza di fatto la maggior parte dei palestinesi non può fuggire: l’Egitto apre il confine solo per i feriti gravi, per i casi umanitari; l’altra frontiera è con Israele. In molti, dice, “non se ne sono voluti andare dalle case perché è opinione comune che se vai via ti bombardano casa e anche la scuola: è successo con l’operazione ‘Piombo Fuso’ del 2012” condotta da Israele tra il dicembre 2008 e il gennaio 2009. Nella scuola-rifugio di Nasser Street a Gaza City i palestinesi “dormono per terra tra i banchi di scuola – racconta la Calvelli – C’è chi è riuscito a portarsi un cuscino, chi ha conquistato una coperta”.
Di fatto nella notte di lunedì, afferma la cooperante, “non ci sono state grandi operazioni militari” contro la Striscia, “ci sono stati bombardamenti anche su obiettivi già colpiti e lanci di missili, ma da questa mattina i bombardamenti sono notevolmente diminuiti, nonostante continuino nella zona sud, dove sembrano più operazioni di disturbo che altro”. Meri Calvelli parla di un “atteggiamento di calma che non si sa a cosa sia dovuto: se agli occhi che gli israeliani hanno addosso, se ai molti giornalisti arrivati a Gaza, se alla debole presa di posizione della comunità internazionale dopo sette giorni di bombardamenti”, che hanno fatto almeno 172 morti, tra i quali molte donne e bambini.
Secondo un’analisi dell’agenzia di stampa Dpa, sulla base di un elenco delle vittime fornito dal ministero della Salute di Gaza, sono donne e bambini il 30% dei 172 palestinesi rimasti uccisi nell’operazione israeliana. La vittima più giovane è un bimbo di 18 mesi. Dopo sette giorni, osserva la cooperante, “dal punto di vista militare gli israeliani non hanno risolto assolutamente niente, almeno rispetto agli obiettivi prefissati”, ovvero alla volontà di “smantellare la macchina terroristica di Hamas”, come affermato nei giorni scorsi da Mark Regev, portavoce del premier israeliano Benjamin Netanyahu.
Intanto arrivano le notizie di un’operazione in Cisgiordania delle forze israeliane, di 23 arresti e di un palestinese rimasto ucciso in disordini a sud di Hebron. “Io lo leggo come un tentativo di distogliere l’attenzione – commenta la Calvelli – Sono operazioni che servono a fornire una copertura per altre operazioni, per sviare l’attenzione, anche perché all’interno di Israele hanno creato il panico”. E se gli israeliani hanno scelto ‘Confine protettivo’ come nome per l’ennesima offensiva contro Gaza, per la cooperante “questa operazione non è che ha proprio protetto i bordi, anzi li ha sfasciati”. “Piccoli segnali” arrivano comunque da Gaza City. “Se ieri per le strade c’erano due persone, oggi – conclude – ce ne sono tre”.