Individuata l’area del cervello dove si fisserebbero le nostre paure
Da anni gli studiosi perseguono l’obiettivo di sconfiggere le paure che tormentano l’uomo. Attenzione, bisogna subito chiarire che la paura non è un elemento totalmente negativo, ma è quel sentimento, quello stato emotivo, che ci dà l’impulso di reagire ad una situazione che ci mette in pericolo o anche solo a disagio. Per questo motivo è pur sempre necessaria. Ma esistono delle paure che, purtroppo, lasciano il segno e tornano a tormentarci anche quando non è il caso di essere in allarme. Questo genere di paure, purtroppo, spesso compromette la vita serena la quotidianità dell’uomo che tende ad essere sempre in stato di angoscia e di allarme a causa di questi che vengono detti disturbi post traumatici da stress e altri disturbi d’ansia che non coinvolgono solamente gli aspetti mentali, ma anche il funzionamento del corpo e portano al conseguente sviluppo di disturbi somatici che compromettono seriamente la stabilità del soggetto. Ricordiamo che gli attacchi di panico sono una delle patologie più diffuse dei nostri anni e che spesso derivano da stress e da paure fissate nella nostra mente e che nei momenti di forte disaggio tornano alla luce.
Quello che la medicina cerca di fare da tanti anni è proprio trovare dove sono situate queste paure per poterle rimuovere una volta per tutte, in modo che non possano più disturbare la vita del paziente. Ma dove risiederebbero queste paure? Una domanda certamente difficile, visto la vastità della materia che coinvolge il cervello umano che per molti aspetti risulta ancora sconosciuto. Invece, pare che proprio in questi giorni, sia stata diffusa la notizia che sarebbe stata individuata l’area in cui è cruciale per l’espressione dei comportamenti condizionati dalla paura, ovvero la corteccia mediale prefrontale. Una ricerca recente ha mostrato che l’inibizione di particolari neuroni in una zona della corteccia prefrontale determina la risposta alla paura. Si tratta di una reazione a catena, in cui l’inibizione di alcune cellule ne attiva altre, che a loro volta attivano le aree del cervello che poi portano all’espressione della paura negli individui. La ricerca è stata condotta dal gruppo guidato da Cyril Herry dell’Inserm Magendie Neurocentre, a Bordeaux. Utilizzando l’optogenetica nei topi, il team di ricercatori sta identificando i meccanismi cerebrali alla base di questa espressione della paura. Con l’obiettivo di arrivare, un giorno, a ‘disinnescarla’. L’optogenetica combina tecniche ottiche e genetiche di rilevazione, per sondare circuiti neuronali all’interno di cervelli intatti degli animali. Gli studi condotti da Herry e colleghi sono i primi ad analizzare l’attività cerebrale durante la generalizzazione della paura indotta da nuovi contesti. “Speriamo di identificare i meccanismi cerebrali che portano alla generalizzazione della paura, e comprendere quali sono i circuiti neurali responsabili” spiega il ricercatore. Il team ha sfruttato la luce per indurre l’attività delle cellule cerebrali degli animali. In questo modo gli scienziati possono stimolare gli impulsi del cervello, ed esaminare nel dettaglio come i circuiti neurali comunicano tra loro. Il tutto direttamente in vivo e in tempo reale. “Per studiare il comportamento legato alla paura nei topi, l’optogenetica permette di attivare neuroni in specifiche aree del cervello, con una precisione temporale al millisecondo senza precedenti. È anche possibile attivare o disattivare specifiche cellule o strutture cerebrali” racconta Herry. “Combinando queste tecniche, siamo in grado di spiegare meglio come le risposte alla paura si manifestano nel cervello, e chiarire quali circuiti le generano”, sottolinea lo studioso. La speranza è che una migliore comprensione di questi meccanismi nel caso di stress post-traumatico possa portare ad avanzamenti nella cura di disturbi simili. “I nostri studi sugli animali potrebbero offrire nuove spiegazioni su come il cervello umano processa la paura, facilitando lo sviluppo di nuovi trattamenti per i disturbi da stress post traumatico e – conclude Herry – altre condizioni psichiatriche correlate”.