Salpata la mattina presto da Gessoriacum, dopo qualche ora di navigazione era già nei pressi della costa britannica, la trireme che trasportava Costantino. Il giovane, ritto a prua, stava intento a scrutare l’orizzonte, calcolando al tempo stesso il progressivo approdo alla terra che non conosceva, e dove, dopo una separazione quasi decennale, avrebbe ritrovato il padre. Del quale, benché in maniera casuale, gli occorreva di visionare ora l’una o l’altra impresa, le aspettative, i tradimenti, i successi e le rinunce, in un ordine che ricostruiamo noi per lui, ora che il tempo della narrazione per Costanzo sta lentamente assottigliandosi.
Interamente, ormai, l’imperatore si era consolidato nella persuasione di essere imparentato col quel Claudio, portato via dalla peste, in cui Roma aveva un giorno riposto invano la speranza di domare l’intraprendente Zenobia. Né dopo di lui vi era riuscito il fratello Quintilio, vittima a sua volta della convulsa anarchia; non prima però di aver messo al mondo una figlia, che, partorendo Costanzo, aveva autorizzato quest’ultimo a fregiarsi più tardi di un’ascendenza nobiliare. Si trattava della debolezza di un grand’uomo scalato ai massimi ranghi, e bisognoso di un inattaccabile pedigrée su cui fondare la dinastia dei nuovi Flavi. Ascendenza di cui lo stesso imperatore Giuliano, il futuro protagonista di questa epopea, fu sempre convinto. E forse sarebbe stato ancora più fiero, se avesse invece saputo che nelle vene del nonno non scorreva sangue regale, e che tutto quanto Costanzo era riuscito a conquistare, lo doveva soltanto alla sua abilità e alla sua intelligenza politica.
Oscuro soldato della terra dalmata, che tanto innesto aveva gettato nel dissanguamento dei reparti, e da dove, dopo che la linfa dell’impero aveva traslocato verso Oriente, era venuto persino qualche valente imperatore, compreso Diocleziano, Costanzo, da modesto legionario, aveva fatto una dura carriera da tribuno, per la sua probità e il suo equilibrio gratificato dalla stima di Diocleziano e dal timoroso rispetto di Massimiano; anche se aveva suscitato la malcelata invidia di Galerio: dal quale, dopo un’offerta di amicizia, aveva preso le distanze quando ne aveva inteso la volgarità e la rozzezza.
Mobilitato lungo le frontiere orientali, dove aveva consolidato la sua formazione, aveva conosciuto a Drepanum, in Bitinia, e se ne era innamorato, la stabularia Elena, che aveva scelto per compagna, e che da allora lo aveva seguito in ogni suo spostamento: finché, il 22 marzo del 280, si era fermata a Naissus, in Serbia, in seguito alla nascita di Costantino. Pur vivendone lontano per le esigenze della guerra, da allora il borgo di Naissus era diventato il nucleo più intimo della topografia emotiva di Costanzo, il focolare dei suoi affetti più genuini, e il luogo dove tornava ogni volta che il respiro della guerra gliene dava la possibilità: attrattovi, oltre che dalla prepotente sensualità di Elena, anche dall’orgogliosa tenerezza verso il figlio.
Ma pur nutrendo queste passioni privatissime, divenuto generale, Costanzo non poteva non trovarsi coinvolto in ogni notevole fatto politico o militare; e aveva subito inteso che gli eventi stavano precipitando, dopo che a Ctesifonte il fulminato imperatore Aurelio Caro aveva lasciando la successione ai figli Numeriano e Carino. Il primo, morendo per mano del prefetto Aper, aveva aperto la via al trono per Diocleziano. Il secondo, invece, dispoticamente governante a Roma, era stato ucciso a Viminacium dal tribuno Aurelio, di cui aveva violentato e trucidato la moglie. E così, giunto al potere supremo per effetto di un imprevedibile concorso di circostanze, Diocleziano, nel convegno di Salona, aveva stabilito la propria successione, in caso di sua eventuale morte prematura, nominando cesare Massimiano. Il quale, subito incaricato di andare a domare la rivolta anarcoide dei Bagaudi in Gallia, per non lasciare la Rezia scoperta, ne aveva affidato il comando proprio a lui, Costanzo, richiamandolo dalla licenza a Naissus.
In Rezia Costanzo aveva conosciuto il tribuno Aurelio, reduce dal doloroso scioglimento del suo idillio con Valeria, e preceduto dall’aureola del suo atto cruento contro Carino, con cui aveva evitato la guerra civile. E tra di loro, benché separati dall’età e dallo stato sociale, era subito sorta un’istintiva simpatia, appena frenata dalla discrezione di entrambi a diffondersi sui sentimenti in un contesto che contemplava solo scambi camerateschi. Ma poi, un po’ alla volta, superando il pregiudizio che a un soldato non si addice la mollezza, i due avevano intensificato il rapporto di amicizia e confidenza. Dal tribuno, Costanzo aveva appreso la ragione per cui si trovava là dopo il distacco da Valeria; e a sua volta gli aveva narrato di Elena e Costantino, dei suoi sogni di gloria e del suo desiderio di ricongiungersi, dopo tanta attesa, stabilmente a loro.
Attesa che del resto sembrò ricompensata, allorché Massimiano, analogamente a quanto Diocleziano aveva fatto con Galerio, lo nominò prefetto, innalzandone la posizione economica e sociale. Costanzo, euforico per la promozione, si precipitò allora a Naissus, per condividere con Elena la gioia che presto avrebbe potuto sposarla e tenerla con sé, insieme al bambino. La sua maggiore soddisfazione, in effetti, consisteva proprio nel piacere di appagare la compagna; anche se permaneva ancora l’ostacolo della spedizione che avrebbe dovuto compiere in Britannia, dove era in atto la rivolta separatista di Carausio. Quest’ex ufficiale romano, intelligente e spregiudicato, al quale Massimiano aveva a suo tempo affidato il compito di impedire ai predoni della Manica di sbarcare sull’isola, volgendo a suo profitto l’azione dei pirati, li aveva lasciati transitare nell’andata, a imbarcazioni vuote, per intercettarli invece al ritorno, e farsi consegnare metà del bottino. Resosi in tal modo ricco e indipendente, dopo aver condotto dalla sua parte diversi ufficiali, e dopo aver battuto le legioni ausiliarie, era stato accolto nell’isola come un autentico liberatore, suscitando un entusiasmo che rischiava di condurre la Britannia fuori dal controllo di Roma. Per la prima volta un condottiero riusciva ad alimentare in quelle popolazioni irrequiete la linfa di un sano orgoglio etnico: grazie al quale, dopo aver domato le agitazioni delle bande estremiste, aveva potuto percorrere trionfalmente le contrade, raccogliendo ovazioni, e celando in cuore il sogno di un’operazione costruttiva per la stessa Roma. Ma era proprio quella popolarità a insospettire Diocleziano, e a convincerlo del pericolo che l’isola si lasciasse sedurre da un avventuriero. Pertanto, fidandosi dei rapporti di Massimiano, con rafforzata prevenzione, non aveva saputo scorgere nell’insubordinazione di Carausio altro che la mossa di uno spregiudicato capopopolo, sedotto dal miraggio della porpora.
Anche per scongiurare questo pericolo, si era allora deciso al grande passo a cui pensava da tempo: quello cioè di suddividere l’impero in quattro parti: sollevando Massimiano al grado di imperatore, e affiancandogli come cesare, non diversamente da come aveva fatto per se stesso con Galerio, proprio Costanzo. Il quale, ben oltre ogni sua aspettativa, da prefetto era balzato sul piedistallo che gli avrebbe consentito un giorno, in quanto vice di Massimiano, di diventare imperatore.
Ormai più niente si frapponeva alla sistemazione definitiva della sua famigliola, se non la spedizione in Britannia, dalla quale confidava di tornare carico di gloria, per offrire una vita straordinariamente privilegiata a Elena e Costantino. Solo che, sull’onda precipitosa dell’entusiasmo, Costanzo non aveva fatto i conti con le implicazioni familiari che la Tetrarchia comportava, e non sapeva che proprio in quel successo si annidava il più serio ostacolo al suo progetto.