Costretto dal precipitare della situazione in Britannia a salpare prima del previsto, Costanzo, dopo averne ottenuto l’affidamento, non poté però occuparsi del figlio, come aveva sperato di fare. Considerando del resto troppo rischioso prenderlo con sé, e non fidandosi di Massimiano, che di certo avrebbe risolto a favore di Massenzio l’inevitabile competizione tra i due ragazzi, l’aveva spedito a Nicomedia. E là Costantino aveva conseguito un’accurata formazione, sotto lo sguardo vigile di Diocleziano, che ne aveva intuito le potenzialità, ed esercitava nei suoi confronti una paterna tutela: al punto che, quando il degrado della situazione egiziana richiese il suo intervento, ritenendola la migliore esperienza per un adolescente, lo aveva condotto con sé. Proprio ad Alessandria Costantino era entrato in contatto con i profughi cristiani, di cui aveva imparato a scrutare gli ideali e i principi; e aveva intuito che la loro spinosa questione non poteva essere risolta senza indagarne l’interna spiritualità; e che occorreva un’inedita scienza politica al controllo di una setta che, per la sua virulenza ideologica si distingueva dalle tante che pullulavano nell’impero.
Intanto, mentre il giovane faceva queste fondamentali riflessioni, Costanzo era impegnato nella campagna britannica, dopo essere salpato dal porto di Gessoriacum con due diverse flotte: una al proprio comando, e l’altra sotto quello del prefetto Asclepiodoto. E veleggiando quest’ultimo con imbarcazioni leggere, che gli consentissero una migliore agilità, il cesare puntava sulla capitale, con navi equipaggiate per un più duraturo soggiorno: ben intenzionato, oltre che a mettere fine al tentativo separatista, a punire il tradimento di Alletto, nonché a saldare il tacito impegno assunto con Costantino, che fin da piccolo aveva edificato su quel trionfo i sogni di grandezza.
Suo intento era quello di risalire il Tamigi fino a Londinium, per colpire il nemico nel quartier generale; mentre Ascelpiodoto aveva il compito di approdare più ad ovest, per distrarre l’usurpatore con una manovra diversiva, prima di stringere Londinium in una morsa a tenaglia. Ma le cose non andarono come previsto: ché la flotta, smarrita la rotta nella nebbia, in assenza di coordinate fece una deviazione fino all’estremità occidentale: da dove i soldati, dopo aver bruciato le navi, si erano addentrati nella terraferma, per piombare, dopo un largo arco, alle spalle dei nemici che li attendevano dal mare.
Col disegno di un assalto in due tappe successive, Asclepiodoto impegnò inizialmente Alletto sulla costa, per lasciargli credere di avere a che fare con tutto l’esercito; e poi gli piombò addosso col resto dell’esercito, e lo sbaragliò col terrore della sorpresa. E infatti, tra l’ala sinistra che li schiacciava verso il mare, e la destra che li appostava in una risacca, svanita ogni speranza di salvezza, ai nemici non restava che battersi. Il loro sgomento e la debole resistenza raddoppiarono l’ardore degli assalitori; finché, del tutto scoraggiata, la fanteria di Alletto si diede a una fuga disordinata, sotto il tiro di frombolieri ed arcieri. E lo stesso comandante, che invece di combattere era scappato, fu trapassato da una freccia dalle spalle al petto: a conferma che non poteva cadere gloriosamente, chi gloriosamente non aveva saputo vivere.
Ebbro della vittoria conseguita, tra canti e inni, Asclepiodoto costeggiò la costa fino alla foce del Tamigi, dove la flotta di Costanzo emergeva in ritardo dalla bruna; e i due eserciti fusi poterono fare un’entrata trionfale in Londinium. Dove Costanzo, acclamato redditor lucis aeternae, poté però gustare solo una vittoria amarognola, siccome non a lui spettava il merito di aver liberato la Britannia, che comunque, dopo quasi dieci anni di indipendenza, ritornava ad essere provincia controllata. Quindi, subito messosi in moto per riparare i guasti di Alletto, incominciava a cogliere i frutti della sua opera, quando fu richiamato in Gallia da Massimiano. Il quale, sgominati gli Alemanni sul lago di Costanza, e i Burgundi che saccheggiavano il basso Reno, era dovuto accorrere nelle regioni africane. In sua sostituzione, Costanzo si diede alacremente a difendere le frontiere sul Reno; e quando gli Alemanni lo superarono, gli inflisse perdite disastrose nelle battaglie di Langres e Vindonissa.
Una meno cruenta vittoria, a sentire lo storico Eusebio, ottenne invece durante la persecuzione che nel 303, dopo avere a lungo esitato, Diocleziano si decise a scatenare contro i cristiani. Al contrario di Massimiano e Galerio, che nutrivano nei loro riguardi un odio implacabile, Costanzo, che detestava l’idolatria, giunse ad espellere chi faceva sacrifici, per trattenere nel palazzo i seguaci di Cristo. Aveva escogitato un sagace espediente per provare la fedeltà dei collaboratori, che consisteva nel porli davanti all’alternativa di sacrificare agli dèi, se intendevano ricevere i suoi onori; oppure di rifiutarsi, con conseguente sanzione. Si trattava però appunto di uno stratagemma, di cui solo dopo la scelta rivelò la finalità: quando condannò la codardia di chi aveva sacrificato per convenienza; e lodò la devozione di chi perigliosamente era rimasto fedele al proprio dio. E adducendo la sottile motivazione che non poteva votare fedeltà al principe, chi non era stato in grado di darla all’essere supremo, fece allontanare dalla corte gli opportunisti, e trattò con un occhio di riguardo, sollevandoli alla difesa della propria persona, coloro che avevano mantenuto una così salta fede.
Per tale dolcezza di carattere, per l’altezza della pietà, per l’estrema indulgenza verso i sudditi, dai quali ottenne in ricambio un costante affetto, Costanzo fu, sempre a detta di Eusebio, l’unico dei tetrarchi, a non macchiarsi le mani di sangue cristiano. Né le cose andarono diversamente dopo la sua nomina ad augusto, quando nel 305 Diocleziano, deciso all’abdicazione, ingiunse a un riottoso Massimiano di consegnare lo scettro, come lui stesso aveva fatto con Galerio, nelle mani salde e fidate del suo cesare.
Da allora, l’atteggiamento di Costanzo nei riguardi dei cristiani, che pure già era stato di attenzione e di rispetto, si fece ancora più mite. Finché si era sentito controllato da Massimiano, si era barcamenato per mascherare una liberalità che avrebbe potuto comprometterlo. Ma in seguito, accedendo al trono, si sentì sgombro da ogni dipendenza; e svincolato dalla necessità di rendere conto a un superiore, esercitò su di loro una pressione molto blanda.
Per gli anni seguenti, poi, mentre Costantino, terminato brillantemente il suo tirocinio, veniva sollevato da Diocleziano a tribuno, e iniziava la sua irrefrenabile ascesa, Costanzo, ritornato in Britannia e insediatosi nel quartier generale di Eburacum, si dedicò a rimediare ai disastri dell’avventura separatista; a rimettere in ordine i confini; a favorire i commerci con tutte le province dell’impero; a ricacciare le navi sassoni, e a respingere alcuni insediamenti di Pitti e Scoti. Finché, colpito da una malattia debilitante da cui si sentiva sempre più fiaccato, chiese a Galerio, con sempre più allarmata insistenza, di consentire al figlio di raggiungerlo.