Lirio Abbate, redattore dell’ANSA e corrispondente de La Stampa, co-autore, con Peter Gomez, del pluripremiato libro “I complici”, dal maggio scorso vive sotto scorta perché oggetto di intimidazioni di stampo mafioso. Attento osservatore del fenomeno mafioso, è stato l’unico giornalista presente sul luogo al momento della cattura del capomafia Bernardo Provenzano e il primo a redigere la notizia della cattura con i particolari del blitz. Il grande maestro Biagi, nei giorni successivi all’arresto di Provenzano, scrisse di lui: “Per la cronaca lo scoop mondiale l’ha fatto un giornalista dell’ANSA di Palermo, Lirio Abbate, con il quale credo che noi della categoria dobbiamo complimentarci”. Il 17 novembre scorso ha ricevuto, per il suo coraggioso lavoro sul fronte della lotta alla mafia, il Premio Internazionale di Giornalismo ”Maria Grazia Cutuli”. Lo abbiamo incontrato nel suo ufficio dell’Ansa, a Palermo, per raccogliere le sue riflessioni su quanto sta accadendo in Sicilia e su cosa presumibilmente accadrà dopo il recente arresto del boss latitante Salvatore Lo Piccolo. Nelle sue parole non solo la preoccupazione per la situazione attuale e l’indignazione per le circostanze che consentono e favoriscono il perdurare dell’illegalità mafiosa nell’isola, ma anche la decisione, il coraggio e il senso dell’onore di un cronista che ha fatto della legalità e della trasparenza la sua missione
Durante la sua professione lei si è spesso occupato di mafia, seguendo le vicende che hanno interessato e coinvolto le persone e i posti nei quali lei stesso vive: da attento e costante osservatore può, più di altri, raccontare l’evoluzione, sempre che ci sia, di quella che è stata definita l’impresa italiana più fiorente. Cosa è cambiato negli ultimi decenni?
Il fenomeno mafioso è cambiato perché sono cambiati i sistemi usati dai mafiosi stessi: partiamo dal principio, fondamentale, che la mafia è un’organizzazione segreta che ha contatti con i politici: la mafia fa politica. La mafia è mafia perché, diversamente dalla ‘ndrangheta o dalla camorra o dalla criminalità organizzata in genere, ha sempre più intensificato i contatti con la politica e negli ultimi tempi, tramite le intercettazioni e le dichiarazioni dei politici abbiamo visto come la mafia sia anche riuscita (Provenzano soprattutto) a candidare persone di fiducia al parlamento nazionale, al senato, persone elette in Sicilia e sistemate poi in posizioni strategiche dalle quali hanno tentato di far passare leggi a favore della mafia.
La mafia, oggi, è tutto questo, sta qui la sua evoluzione: non più soltanto omicidi perché si è capito che non servivano, non portavano da nessuna parte; la mafia ha smesso le armi e agli attentati cruenti per portare avanti i suoi piani con più “diplomazia”.
Questi legami tra mafia e politica ci sono sempre stati o, come la “diplomazia” cui accennava prima, rappresentano un’evoluzione dell’organizzazione interna mafiosa?
“L’atteggiamento diplomatico” è recente, ma la connivenza con la politica c’è sempre stata, fin dagli anni 70 e 80.
La cronaca recente riporta l’arresto di Salvatore Lo Piccolo, da molti ritenuto l’erede di Provenzano, del figlio e di altri collaboratori. Che ruolo ricopriva in realtà nell’ambito dell’organizzazione mafiosa Lo Piccolo e qual’è lo scenario che si configura adesso?
Salvatore Lo Piccolo era l’erede di Provenzano, un capo mafia ricercato da 25 anni; ma sicuramente non era il capo di Cosa Nostra a Palermo, tant’è vero che dai documenti ritrovati in occasione del suo arresto, è emerso che Lo Piccolo non aveva contatti con altri latitanti, tranne che, al tempo, con Provenzano stesso. Adesso la resa di 4 boss mafiosi latitanti scompagina i vertici e gli equilibri di Cosa Nostra; non c’è più un erede e l’arrembaggio al vertice scatenerà la competizione tra i mafiosi: competizione che, in Cosa Nostra, può tradursi anche in una “fibrillazione” dalle gravi ripercussioni per la città di Palermo.
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Ritengo il codice una buona “forma di pulizia”, necessaria all’interno dei partiti, senza precedenti nel passato. Adesso, visto che il codice non è vincolante, tutto viene rimesso alla coscienza dei vari partiti.
Purtroppo però, soprattutto in Sicilia, tra chi ha amicizie mafiose e chi non ne ha, ad esser scelti tra i partiti sono sempre i primi, perché hanno un potere elettorale molto più elevato. Davanti a chi fa loro notare tale realtà i rappresentanti di partito si indignano, ma concretamente non fanno mai nulla per espellere tali soggetti dai loro partiti.
I cittadini in Sicilia sanno chi è mafioso e chi ha i contatti con la mafia; certo il più delle volte mancano le prove per portare certi soggetti davanti ad un tribunale, ma i partiti politici queste cose le sanno e potrebbero, anzi dovrebbero, evitare di candidare determinati soggetti; non lo fanno, ripeto, per i voti che tali soggetti garantiscono al partito: l’importante è vincere, come e con i voti di chi non ha importanza; poi, ovviamente, scatta il meccanismo della “ricompensa”, si deve pagare il pegno, e così si perpetua all’infinito un sistema di illegalità diffusa.
Un esempio per tutti è rappresentato dall’omicidio di Salvo Lima, l’eurodeputato ucciso perché non ha risolto i problemi che gli sono stati posti dalla mafia.
Cosa significa fare il giornalista d’inchiesta in realtà difficili come quella siciliana? E a Palermo in special modo?
Fare il giornalista a Palermo significa stare attenti a chi ti sta accanto, aprire gli occhi e osservare bene.
Negli ultimi 10 anni si è scoperto grazie ad indagini e intercettazioni telefoniche che i veri mafiosi sono persone inimmaginabili, avvocati, medici, parlamentari, gente ben inserita nei salotti dell’alta società, gente che non porta più la coppola e la lupara in spalla ma una laurea in tasca, per cui a vederla sembra tutta gente per bene; poi, indagando, viene fuori che nei loro salotti si discute di estorsioni, di appalti, di omicidi da compiere, dei candidati da mettere in lista per le politiche e si scopre il vero volto di questa gente dai colletti bianchi ma dalla faccia nera.
La Regione Sicilia è amministrata da Cuffaro, indagato per concorso esterno con la mafia; la Sicilia, e alcuni politici siciliani, hanno assicurato e protetto la lunga latitanza di Provenzano; sembra che dall’infiltrazione mafiosa in Sicilia non si possa prescindere, si è arrivati a pensare che la mafia faccia comodo ai tanti che votano in maniera da aumentarne il potere per poi trarne propri tornaconto: qual è il suo parere?
Sinceramente non lo so; forse dentro i siciliani stessi c’è un dna di mafia che in un certo senso serve ed è importante avere, perché funziona da anticorpo per combattere la mafia stessa: senza questo dna sarebbe difficile capirla e affrontarla. Il problema è che se non si riesce a sviluppare sufficientemente questi anticorpi allora prevale il dna mafioso e ci si comporta in maniera criminale.
Se una latitanza dura per 43 anni, per forza di cose molta gente ha coperto, appoggiato e favorito tale situazione di illegalità; e se lo si è fatto per 40 anni è logico pensare che almeno due generazioni siano state coinvolte in tale copertura, i figli proseguendo l’azione dei padri; e probabilmente non si tratta solo di malavitosi, di campieri e di contadini, ma di gente appartenente ad una certa borghesia che è riuscita a tramandare di padre in figlio “valori” tipici della realtà mafiosa che, in realtà, non sono valori ma distorsione di valori.
E’ molto singolare l’affermazione che ha appena fatto: a suo dire bisogna avere quel piccolo gene di “mafiosità” appartenente al dna dei siciliani stessi, per combattere la mafia…
Sì; da fuori è difficile combattere la mafia, perché bisogna avere dentro di sè qualche particella di mafiosità che ti consente di valutare chi ti sta davanti, capire chi è il mafioso, come cercare di sconfiggerlo, di capirne e rivelarne le mosse i messaggi, i gesti e i segnali, perché la mafia è fatta anche di tutto questo: tra mafiosi basta uno sguardo o un gesto per intendersi, per esaurire un discorso che altri potrebbero farsi per mezz’ora.
Sciascia scriveva che la verità sta in fondo al pozzo: guardando dall’alto ci si può vedere il sole o la luna; ci si può accontentare ed andare oltre, oppure ci si può buttar dentro; lei, che ha affermato che il lavoro di cronista o è accurato o non è, ci si è buttato, ha trovato la verità che cercava e l’ha raccontata, con tanto di nomi e cognomi. Per questo adesso è sotto scorta. Tornerebbe indietro?
No, ritengo di aver fatto quello che ogni buon siciliano dovrebbe fare, niente di più. Sciascia ha una teoria, quella del dito puntato, dello stagno e dei cerchi concentrici che si allargano e si allontano: il dito, però, indica un solo punto e poi da lì parte tutto il resto; ecco i siciliani dovrebbero fare così e dovrebbero farlo in tanti, invece lo fanno solo alcuni, pochi, e quando a denunciare le illegalità è solo una persona allora è questa a venire indicata e puntata: questo crea solitudine e quando, in Sicilia, le persone vengono isolate, fanno una brutta fine. Io ritengo di aver fatto quello che tutti dovrebbero fare ma che solo pochi fanno. Detto questo no, non tornerei indietro.
Cosa significa dover convivere con la consapevolezza di essere nel mirino della mafia?
Inevitabilmente cambia la vita e incute un po’ di paura; ma la vita ci insegna che fare cose importanti implica certi rischi. Conta molto anche sapere di rischiare con la consapevolezza di avere uno Stato accanto e la protezione della polizia; questo deve permetterci di continuare a fare ciò che sappiamo fare, contribuendo nel nostro piccolo a dare un senso di speranza ed un esempio di coraggio ai siciliani.
Tra le numerose manifestazioni di solidarietà che ha ricevuto ce ne sono di certo alcune che non si aspettava, così come, forse, non si aspettava l’assenza di altre…
La solidarietà è importante, fa bene e piace; io ringrazio tutti quelli che mi sono stati e mi stanno accanto, però è importante sottolineare che la solidarietà ha bisogno anche e soprattutto di fatti concreti.
In Sicilia certe situazioni bisogna capirle vivendole; parlare è facile, mettere insieme le cose e portarle avanti è difficile e complicato. I colleghi siciliani sono scesi in strada per manifestare il disappunto contro i fatti di cui io sono stato vittima: l’unione, per la prima volta, in una manifestazione antimafia dei cronisti siciliani è in sè una grande cosa; a noi poco importava che le istituzioni fossero presenti o meno in questa nostra passeggiata di protesta.
Alcune persone sono venute solo per fare vetrina, per farsi vedere e fotografare: di politici che hanno preso spunto da questa manifestazione di solidarietà e hanno buttato fuori dal loro partito la gente collusa con la mafia non ce ne sono stati. Noi cronisti denunciamo fatti morali, sociali e politici, non fatti penali: un politico che va a cena con un boss mafioso non rappresenta una fatto penalmente rilevante ma per il giornalista è una notizia che è doveroso riportare, perché è una verità che accade e che va denunciata.
Lei ha affermato che non occorre una condanna per identificare certe persone come mafiose e che il garantismo delle aule dei tribunali non deve trovar posto in politica, dove è piuttosto necessario il buonsenso. Partendo da questo presupposto la classe politica sarebbe non dico da rifare ma quasi…
Infatti spero che la rifacciano, e presto anche, tenendo presente l’importanza del principio di legalità.
Come giudica l’informazione in Sicilia?
In maniera decisamente negativa, ma non è colpa dei giornalisti: i giornali li scrivono i giornalisti ma li editano gli editori, che è tutt’altra cosa.
Per far capire quanto intendo porto l’esempio di quanto accaduto solo poche settimane fa: un collega ha riportato la dichiarazione del presidente dell’assembea regionale, Miccichè, durante un incontro pubblico, affermazione secondo la quale il turismo in Sicilia non può svilupparsi perché l’aeroporto di Palermo è intitolato ai giudici Falcone e Borsellino e porta alla memoria di chi arriva nell’isola la realtà mafiosa di cui è vittima la Sicilia, rafforzando il connubio Palermo-mafia.
I giornali siciliani il giorno dopo hanno relegato la notizia in fondo ad una pagina di mezzo, esaurendola in poche battute, né il presidente Miccichè ha ritenuto di doversi scusare.
Dopo le reazioni politiche del presidente dell’associazione antimafia e di altre personalità, la notizia è stata riportata con ampio spazio su Repubblica, dando il via ad una serie di reazioni e polemiche. Solo in seguito a questo Miccichè ha ritenuto di dover chiedere scusa.
Questo è un classico esempio di come si comportano i politici, ma anche di come si comporta l’informazione in Sicilia: si minimizza, nessuno si indigna per queste cose, occorre catturare l’attenzione dei giornali nazionali perché certe realtà vengano fuori e si affrontino con la dovuta attenzione.
Lei ha parlato di onore, di un onore sano che le impedisce di andar via e la spinge a rimanere per non scendere a patti con ciò che disprezza; Abbate rimane anche per quei molti siciliani che quel sano senso dell’onore hanno smesso di coltivarlo: crede che la Sicilia, e certi siciliani, meritino ancora il coraggio di persone che, come lei, si espongono in prima linea?
Sì, la Sicilia, e con essa buona parte dei siciliani, merita tutto questo; un esempio a testimonianza di questo è quello degli imprenditori che hanno preso a denunciare di pagare, o di aver pagato, il pizzo alla mafia.
Confindustria fa quello che i partiti dovrebbero fare: se si scopre un imprenditore che paga il pizzo e non lo denuncia lo si butta fuori. Il problema è denunciare il sistema di cui si è vittime: non si chiede all’imprenditore di fare l’eroe e di non pagare, ma gli si assicura protezione e aiuto in cambio della collaborazione con la magistratura. Così Confindustria è accanto a chi è vittima del racket. Questo è un passo avanti che ritengo positivo per questa Sicilia.
Sciascia parlò di irredimibilità della Sicilia. A distanza di tempo e in base alle sue valutazioni, condivide tale affermazione o ritiene, anche alla luce dei recenti successi della magistratura, che ci sia spazio per un cauto ottimismo?
Le ultime elezioni regionali opponevano due candidati: Cuffaro, già sotto processo per aver favorito la mafia, e Rita Borsellino; i siciliani hanno preferito Cuffaro: questo, al di là di ogni appartenenza politica, significa che ai siciliani piace il modo di fare di Cuffaro e non la legalità di Borsellino. Esempio eclatante di quello che vogliono i siciliani e risposta eloquente circa la redimibilità della Sicilia.
Ciò a causa di quel dna mafioso dei siciliani o per il bisogno di scegliere la strada più facile per garantirsi l’indispensabile?
In Sicilia c’è disoccupazione e i problemi economici non mancano; si appoggia il mafioso per bisogno, perchè da lavoro in maniera più snella rispetto allo Stato; si mantiene la disoccupazione e il precariato a fini elettorali per garantirsi il voto, alla vigilia delle elezioni, in cambio della promessa di una “sistemazione”.
In questo senso lo Stato non ha dato grandi risposte ai siciliani:bisogna creare lavoro e liberare i cittadini da questa forma di assistenza; solo a quel punto i siciliani avranno la giusta libertà di pensiero e di voto.
Il permanere di questo fenomeno in Sicilia è in parte dovutom dunque, all’assenza e al vuoto lasciato dallo Stato?
Si, senza ombra di dubbio.