Intervista a Gerardo Passannante in occasione della pubblicazione di “Avvisaglie d’uragano”
A giudicare dai suoi libri precedenti, lei sembra essere uno scrittore di natura piuttosto “esistenzialista”. Coma mai le è venuta l’idea di scrivere un romanzo storico?
La prima idea del romanzo mi venne in seguito all’attentato alle torri gemelle, che mi portò a riflettere sul fatto che, sia pure con modalità e strumenti diversi, il fanatismo religioso, in tutte le sue forme, ha una medesima matrice, e nasce da un’intransigenza tipica del monoteismo, di cui anche i cristiani e gli ebrei hanno dato esempi nel passato. Ciò dipende dal fatto che, mentre il politeismo tollera generalmente la convivenza di molteplici dèi, magari gerarchizzati, ma comunque ospitati in un generoso Pantheon, tanta accondiscendenza non si addice al monoteismo. L’esistenza di un unico dio implica una necessaria disgiunzione, portatrice di conflitti più o meno violenti con chi in quel dio non crede. E anche quando il dialogo è favorito e auspicato, non muta il sofisma che lo sottintende, e che suona più o meno così. Esiste un solo dio: il mio. Se tu ne adori un altro, che consideri il vero, uno dei due deve essere sbagliato. E siccome il vero dio è il mio, cercherò di provartelo; e se riuscirò a convincerti ti chiamerò fratello; altrimenti sarò tuo nemico, e ti combatterò finché non ti avrò “sottomesso”. Questa è la logica intransigente che giace al fondo di ogni forma di monoteismo; e anche quando si è aperti al confronto, e si fa spazio a una larga “tolleranza”, al di sotto del fair play permane questa tacita persuasione.
Tenendo conto di questa analogia di fondo, come mai ha ambientato “Il declino degli dèi” proprio nel III e IV secolo? Cosa l’ha spinta a privilegiare questo periodo?
Inizialmente intendevo solo scrivere un romanzo su Giuliano l’Apostata, l’imperatore che, in due soli anni, dal 361 al 363, fece l’estremo, vano tentativo, per frenare l’avanzata del cristianesimo e ripristinare i valori della civiltà greco-romana.
Invece ne è venuto fuori un ampio romanzo ormai giunto il quinto volume, di cui “Avvisaglie d’uragano” è solo il primo. Prevedeva, quando ha iniziato la stesura, un’opera così vasta?
No. Quando, anni fa, iniziai a scrivere il romanzo, non ne prevedevo affatto le dimensioni. Credevo che me la sarei cavata con un solo volume, magari corposo, di cui Giuliano sarebbe stato il protagonista. Ma mentre procedevo nella documentazione, e poi nella stesura, mi accorgevo sempre più che per trattare adeguatamente di Giuliano mi occorreva far precedere alcune pagine su Costantino, che aveva sdoganato il cristianesimo e messo fine alle persecuzioni, l’ultima delle quali era stata scatenata da Diocleziano. E così, andando a ritroso, il libro mi cresceva tra le mani: e quella che doveva essere una premessa di qualche decina di pagine ha già prodotto quasi cinque volumi (e ho materiale per ancora altrettanti), senza che Giuliano sia neanche nato!
Sinteticamente, quali personaggi vedremo muoversi sulla scacchiera della storia in questo volume?
In assenza quindi di Giuliano, che deve ancora venire, i personaggi principali di questo primo volume, oltre Diocleziano stesso con i futuri tetrarchi Massimiano, Costanzo Cloro e Galerio, sono la moglie Prisca e la figlia Valeria, di cui storicamente non sappiamo quasi niente; nonché il piccolo Costantino, Carino, Carausio, Lattanzio, Porfirio, e molti altri ancora.
Che rapporto esiste nel suo romanzo tra la storia reale e quella inventata? In che modo interagiscono? Le vicende narrate sono attendibili o di completa invenzione?
La mia concezione di romanzo storico si stacca dalla moda di quelli ambientati nel passato, solo per offrire un sfondo più stravagante a vicende criminali o investigative. Non è l’esotismo temporale che cerco, ma intendo fare un’immersione nella “grande Storia”, con un’operazione non diversa da quella di Manzoni o Tolstoi, che fanno interagire personaggi del tutto inventati con soggetti realmente esistiti. Di questi ultimi, però, nell’economia del romanzo, lo spazio che ho lasciato alle loro gesta documentate è piuttosto ridotto, e la narrazione degli atti sicuramente attribuibili potrebbe ridursi a poche pagine. Ho mirato invece a calare la narrazione entro i binari del corso storico, alterando solo raramente, per ragioni compositive, la realtà dei fatti: per il resto ho lavorato di immaginazione sui vuoti, inseguendo non la verità “effettuale”, che è un mito, quanto una verità poetica. Contrariamente allo storico, che deve attenersi scrupolosamente ai dati, e non può permettersi congetture se vuole fare un lavoro probo, lo scrittore può calarsi nell’intimo dei personaggi, strapazzandoli attraverso l’intreccio narrativo e compositivo, attento solo alla verosimiglianza e alla coerenza del narrato. Questo ho inteso fare, senza tuttavia perdere mai di vista le scadenze storicamente documentate.
A volte i romanzi storici vengono accusati di essere solo evasioni nel passato.
Appunto, è quanto intendevo. Ma se fosse solo così, dovremmo chiederci perché mai, oltre un generico prurito voyeuristico, dovrebbe interessarci spiare nelle barbarie del IV secolo, quando tutti i giorni siamo letiziati da fatti e fattacci. Nulla può uguagliare la morbosità suscitata nei voraci fruitori mediatizzati del nostro desolato presente. Dovesse essere questa la motivazione che mi guida, cioè quella di rispolverare delitti e efferatezze del passato, non avrei nessuna ragione di tentare un’impossibile sfida allo schermo. Ma se è proprio della cronaca occuparsi dei problemi odierni, in un aggiustamento progressivo e mai esauriente di linguaggi e formule domani obsolete, l’arte, da parte sua, tende a interpretare il permanente, ciò che ha assillato e assilla gli uomini sotto ogni latitudine, con le medesime domande irrisolte, per le quali si danna o si salva. Ecco, come scrittore è questo che mi interessa. E mi sento tanto più vicino agli “universali” crucci che assillano Diocleziano, che ai tic del politico di turno, soppiantato nell’arco di qualche anno dalle esibizioni frettolose di altre piattaforme.
Ciò significa che un romanzo storico può riflettere anche problematiche attuali?
Assolutamente sì, se si intende questo tuffo nel passato come speculum in aenigmate, una sorta di scartamento per poter meglio comprendere il presente, così come dalla luna si coglie meglio la morfologia del pianeta, che scrutandolo dalla buca scavata in giardino. Questa lontananza temporale consente di vederne meglio la griglia, la struttura, i flussi, e al tempo stesso mira a una visione meno epidermica e frettolosa. Tanto più che sono persuaso che, oltre le diavolerie della tecnologia e la fatuità delle mode, sotto il transeunte abbacinamento dell’effimero, le grandi questioni dell’uomo, il senso del suo essere ed agire, gli inevitabili confronti coi rompicapo del tempo, del male o di Dio, si ripresentano in ogni epoca. E sono questi quesiti di portata globale, che ci consentono ancora il dialogo con gli antichi, che mi interessano; e li trovo più illuminanti delle begucce partitistiche che tanto polarizzano l’attenzione, e che produrranno altri slogan e altri volti.
In un precedente intervento, lei ha detto di essersi dovuto confrontare con una sorta di “complotto del silenzio”. Cosa la porta a non arrendersi all’indifferenza e a continuare a scrivere?
Ho anche detto altre volte, e lo ribadisco, che mi considero un autore postumo. Il che, contrariamente all’apparenza, non è un ripiegamento remissivo ma un proclama di orgoglio e consapevolezza. Credersi un autore postumo, significa supporre una durata della mia opera oltre me; e questa persuasione, il tempo lo dirà, mi seduce molto più della prospettiva di essere un autore venduto (in tutti i sensi). In effetti non è stato facile, in tutti questi anni, scrivere in un paese di lingua diversa, dove però gli stranieri non sono gli svizzeri, ma gli italofoni che per tutte le ragioni mi hanno “ignorato”. Ma se, come dice Montale e come credo, solo gli isolati comunicano, incomincio a gustare il sottile autocompiacimento di dirmi, per bocca del nostro esiliato più illustre, che anche a me “fia bello / averti fatta parte per te stesso”. So che anderswo esiste un pubblico che mi aspetta, anche se ho dovuto troppo a lungo fare i conti con l’indifferenza, l’astio, l’invidia, di chi ha tentato col silenzio o col pettegolezzo di affossarmi. Ma posso ormai riderne. Forte di un’opera in prosa e in versi di tutto rispetto, all’amarezza si sono sostituite una sana ironia e la sottile soddisfazione di assaporare la rivincita. Comunque sia, solo in rari momenti di sconforto sono stato tentato di gettare la spugna. Ma è stata solo questione di qualche ora: ché se perseverare est diabolicum, io, col maligno, intrattengo un rapporto abbastanza privilegiato. Siccome non scrivo per vivere (né lo potrei), ma casomai vivo per scrivere, non saprei pormi altrimenti che come autore. Nessuno me lo impone; ma la spinta, quando è autentica, può fregarsene delle statistiche e del mercato, e alimentarsi da sé, sovrana sull’ignoranza e l’indifferenza. E dopo lunghi anni in cui la discrezione ha prevalso, mi sono detto che è forse tempo di scaricare persino all’occorrenza qualche sgradevolezza, in ossequio all’ammaestramento chi ben se ne intendeva: “Ma nondimen, rimossa ogne vergogna / tutta tua vision fa manifesta; / e lascia pur grattar dov’è la rogna.”
Leggendo questo primo volume dell’opera, si nota che la lingua e lo stile non sono proprio quelli di tutti i giorni. Questo non riduce il range di lettori a cui il romanzo sarebbe accessibile? Perché ha scelto una lingua di questo tipo? Artificio stilistico o funzionalità espressiva?
Chi conosce la mia poesia afferma che è più facile della prosa. In effetti, se in poesia tendo alla prosa, nella prosa tendo alla poesia. Si tratta di una procedimento complementare, al fondo del quale giace la stessa esigenza: avere qualcosa da dire, e dirlo nel modo più adeguato, melodico e funzionale, in un tempo in cui ancora si cincischia tra lo sfogo adolescenziale e il cenacolo iniziatico delle astruserie. Per questo in poesia muovo da un’esigenza di chiarezza, con un lessico rigoroso e il logico concatenamento di frasi che tendono al parlato, senza rinunciare all’interna musicalità dell’italiano, che cerco di restituite mediante un costante battere di endecasillabi e settenari. Un discorso complementare posso fare per la mia prosa, che non è facile, perché è lessicalmente precisa, sintatticamente complessa, e affronta problematiche ardue. Ma se è vero, come vuole Proust, che lo stile non è una questione di tecnica, bensì di visione, già la scelta del soggetto o del taglio narrativo è stile; e la disposizione delle frasi, in una sintassi articolata, non è che traduzione del processo mentale da cui emergono, e che di certo non è paratattico. Va da sé che la gelida “perfezione” non scaturisce di getto, ma richiede un intenso labor limae, per individuare all’interno della frase il termine esatto e l’onda sonora più persuasiva.
“Avvisaglie d’uragano” si sofferma anche sulle vicende sentimentali di alcune coppie di personaggi: Diocleziano e Prisca, Aurelio e Valeria o ancora Elena e Costanzo. Cosa possono aspettarsi i lettori romantici? Sarà lieto fine? O le vicende del potere li porteranno a dividersi per sempre?
Nella mia opera ho trattato a lungo la tematica dell’amore, ma temo di non essere stato abbastanza “romantico”. L’amore, dice Platone, è mancanza e ricerca della complementarità: e tale ricerca interagisce col contesto sempre in maniera conflittuale. La mancanza genera il bisogno, e quindi lo sforzo per superarlo. Ma una volta raggiunto, l’obiettivo si colora col timore e l’angoscia della perdita, e si confronta quindi con l’ineliminabile dimensione del dolore. Per questo i miei personaggi sembrano incapaci di vivere una favola distesa. Come accade a Diocleziano, cui la scalata al potere e le incombenze di uomo pubblico negano la facoltà di comprendere una moglie sempre più delusa e disamorata. Valeria e Aurelio, da parte loro, abbozzano appena un delicato idillio, il cui sviluppo è contrastato dalla ragione di stato e dal loro senso morale. Più torbido e passionale il rapporto di Elena e Costanzo, ma anch’esso destinato a confrontarsi con difficoltà che ne comprometteranno l’esito. E persino il devastante erotismo di Carino non è che una forma di ossessione esistenziale, anch’essa destinata a una risoluzione drammatica.
Un’ultima domanda. Dove è possibile acquistare il romanzo? Saranno disponibili delle copie nella serata di presentazione del 26 novembre?
Certamente nella serata ci saranno delle copie in sala per i volenterosi e i curiosi, insieme ad altri miei libri. Altrimenti lo si può ordinare on line, o acquistarlo presso la libreria de “La Pagina” o la Libreria italiana di Zurigo.
(A cura di Federica Bremaier)