A dieci anni dallo tsunami nell’Oceano Indiano lo sviluppo ha fatto molti progressi, ora gli esperti danno l’allerta di un grande pericolo nel mediterraneo
Sono passati dieci anni da quel terremoto – con conseguente maremoto – di proporzioni devastanti, con epicentro al largo di Sumatra nell’Oceano Indiano che ha sconvolto una vastissima area del Sud-Est Asiatico, dalle coste della Tailandia e dell’Indonesia fino allo Sri Lanka e parte dell’Africa. Quell’ondata anomala che si è abbattuta per centinaia di metri nell’entroterra e sulle coste, causando oltre 400.000 vittime tra morti e dispersi.
Dal disastro nel 2004 gli investigatori e ingegneri si sono dati da fare e quello che si è sviluppato negli ultimi anni salverà la vita a centinaia di persone. Allo stesso tempo però gli esperti non sono soddisfatti, l’introduzione di ampi sistemi di allerta verrebbe impedita da litigi tra le nazioni confinanti. E questo nonostante gli tsunami catastrofici si potrebbero manifestare nello stesso modo del 2004 nell’area del Sud-Est Asiatico, basterebbe infatti un terremoto di magnitudo 5,6 per indirizzare onde di dieci metri verso le coste. L’86% degli tsunami nascono dal maremoto, il resto da eruzioni vulcaniche e frane alle coste. “Spesso non è la prima, ma una delle prime cinque ondate a essere mortale”, spiega l’esperto Alexander Rudloff del centro di ricerche geologiche a Potsdam in Germania. Le onde in pochi secondi spostano così tanta acqua che questa si indirizza verso la costa con una velocità fino a 1000 chilometri orari. Quando poi si alza il fondo marino le onde arrivano ad una altezza fino a 40 metri.
Gli esperti analizzano le coste in cerca di sedimentazioni di vecchi tsunami, con macchine che riescono a fare scansioni in 3D si possono scoprire le età di blocchi di pietre, l’esperta tedesca Michaela Spiske ha spiegato a Focus: “Abbiamo la possibilità di sapere quando un’onda ha colpito una costa e con quale forza”. Il lavoro che Spiske e tanti altri esperti svolgono è rivoluzionario per la previsione di futuri tsunami. La terra può essere divisa in zone a rischio, queste analisi rivelano quali sono le zone colpite e quali sono le zone a rischio in futuro.
Le zone più esposte a rischio tsunami non sarebbero cambiate negli ultimi decenni, gli tsunami però sarebbero più mortali perché le coste sono più abitate e le spiagge pericolose sono diventate mete amate dai turisti, un altro fatto è quello che ben 23 centri nucleari si trovano sulle coste a rischio. Il centro d’allerta a Jakarta è connesso a circa 300 stazioni internazionali, così è possibile localizzare a circa 20 chilometri un terremoto in circa quattro minuti.
L’ultima volta che è scattato l’allarme è stato il 15 novembre, quando un terremoto di magnitudo 7.3 è stato registrato nella parte settentrionale del Mare delle Molucche, in Indonesia. Dopo il sisma è stato diffuso un allarme tsunami che l’agenzia metereologica indonesiana ha ritirato quattro ore dopo. Sono state registrate in seguito due scosse di assestamento di magnitudo 5 e 6.3.
Quello che gli esperti chiedono è un sistema su tutto il territorio anche per le coste del mediterraneo, l’Oceano atlantico e il Mar nero, zone che oggi sarebbero lontane da questi standard, nonostante la regione starebbe – tettonicamente parlando – sotto tensione. Sarebbe molto probabile che uno tsunami causi onde di cinque metri, e questo interesserebbe soprattutto alle coste molto più abitate che in Asia. L’Unione europea non vuole finanziare un sistema di allerta, basterebbero i quattro centri d’allerta già esistenti, ma gli esperti sono convinti che ci vuole un sistema uguale per tutti, anche per quanto riguarda gli allarmi, non tutti i paesi usano lo stesso sistema di allarme. “Abbiamo bisogno di regole di gioco uguali per tutti, per allertare le persone”, conclude Alexander Rudloff.