I canti della perduta terra nell’opera di Eugenio Marino
Andandosene sognando.
È il titolo dell’opera di Eugenio Marino, presentata, tempo fa, a Roma, in occasione di una affollata conferenza, arricchita dalla presenza del bel mondo degli esponenti politici e dell’associazionismo dell’emigrazione organizzata. Manconi e Cuperlo, oltre all’autore, seppero, per l’occasione, cogliere il significato profondo di una storia secolare raccontata attraverso i canti dei suoi protagonisti, il segno, indelebile, della straordinaria esperienza di un popolo. Eugenio Marino sarà in Svizzera nel prossimo fine settimana per presentare la ricerca nelle maggiori città della Confederazione. Un’opera ardita, una storia particolare. Una forma peculiare di riscoperta della memoria della secolare storia italica
Due secoli di storia sussurrati in strofe intrise di una struggente nostalgia per la terra antica da cui, negli ultimi duecento anni, emigrarono, trasmigrando le alpi, o sfidando le tempeste degli oceani sui miseri transatlantici del tempo che fu, oltre cinquanta milioni di disperati per sfuggire dalla fame e dalla disperante povertà di una terra arcigna e infame. Che cosa sei venuto a fare giovane calabro in terra straniera? Non stavi bene, laggiù, tra i monti della Sila e i tuoi due mari? Che cosa sei venuto a fare, giovane friulano, della Giulia e della Dalmazia? Non stavi bene, lassù, trai tuoi monti da cui scorgevi il mare dalle onde spinte verso riva dal soffio impetuoso della bora? E tu, ardito montanaro del vecchio Piemonte, che avevi visto il padre e lo zio partire alla guerra in Crimea o, più tardi, verso le gelide steppe del placido Don. Che cosa sei andato a fare, nella pampas argentina o nel Queensland ? Forse, che so, a riscoprire il ruggito delle mandrie al pascolo sotto il monte Cervino, o a tagliare la canna ricca del frutto succoso destinato agli eletti?
Forse, e ancora forse. Anche se non c’è una risposta compiuta per comprendere, appieno, le ragioni del perché tanti miserevoli abbiano abbandonato le italiche dimore per andare verso l’ignoto rischiarato, secoli prima, dalle tre caravelle del grande Colombo. Come non vi è, oggi, un perché definito nell’esodo di massa di uomini e di donne dalle terre dell’Africa nera e dell’Asia minore, infestate dal morbo dell’odio religioso e razziale, né nel salire sui barconi della morte verso l’abisso del mare. In occasione di una visita a Lampedusa, il comandante della locale capitaneria del porto raccontò come gli apparissero struggenti e permeate di un secolare languore le nenie collettive dei tragici protagonisti. Dentro quei suoni, chissà?, il racconto di un destino già scritto a cui, nemmeno il Dio a cui affidarono la sorte, seppe dare una pur flebile segno.
Nel suo viaggio verso l’Australia – anni cinquanta – mio padre raccontò poi come nel lungo viaggio, durato un mese e più, abbia udito i canti degli emigranti intrisi di profondo dolore. E non sapevi – aggiunse – se fossero canti o pianti, o tutte due le cose assieme. Chi è stato minatore in galleria, a perforare le montagne, come nel profondo del suolo, a estrarre l’antracite, usa sussurrare, in ogni o particolare momento, le strofe del giovane dal volto bruno a cui nessuno pensò nel dramma della notte fatale. La statua della madonna della Rocca o del Carmine, protettrice dei minatori, ha arricchito le piazze di tanti villaggi italiani. Nel mio soggiorno in terra di Libia assistetti alle esibizioni serali dei garfagnini lucchesi. Ogni stornello, frutto della tradizione locale, raccontava la favola di un popolo antico, un destino ispirato dal soffio del grande poeta. Ricordo i canti struggenti per l’amata lontana di quel giovane tecnico nato sulle pendici del vulcano Vesuvio.
Tanti anni fa, nell’ottanta quattro del secolo scorso, a Buenos Aires, appena uscita dal dramma della dittatura omicida, ascoltai, ammirato e sorpreso, il canto corale di “ Vola colomba” , la canzone sanremese lanciata da Nilla Pizzi, dedicata al dramma della Trieste del dopo guerra. Erano migliaia, i protagonisti, e nei loro volti leggevi una passione antica, la stessa di una sera nella Milano soggiogata dal dominio austriaco nel canto dell’inno verdiano. Due momenti. Due storie. Un sentimento collettivo. Parole e musica nell’animo di un popolo. Canta ancora, Lucio. Siccome sei molto lontano, più forte ti scriverò.