Un pittore controverso, vissuto tra la Svizzera e l’Italia, ma soprattutto nel suo mondo che lo ha fatto etichettare come “altro”, “diverso”, e per questo emarginato dalla società con la quale riesce a comunicare solo attraverso la sua pittura. Antonio Ligabue è il protagonista del Progetto Ligabue, una trilogia di spettacoli a lui dedicati che sta per essere portata a compimento dall’attore e ideatore Mario Perrotta. Grazie ad una bella iniziativa dell’Istituto Italiano di Cultura di Zurigo, abbiamo la possibilità di vedere gratuitamente il primo spettacolo della trilogia, Un bès, lunedì 30 marzo presso la Casa d’Italia di Zurigo. Conosciamo meglio Mario Perrotta, l’attore protagonista che ci accompagnerà e ci farà entrare nel mondo dei non integrati.
Come nasce la passione per il teatro?
La passione per il teatro nasce sin da bambino perché mio nonno faceva l’attore a livello amatoriale e l’ha fatto per 70 anni. Tutti i suoi figli e parte dei nipoti, in particolare io, abbiamo iniziato a fare teatro con lui. Io ho cominciato a 5 anni e da lì non mi sono più liberato di questa passione che per me è diventata il mio modo di comunicare col mondo.
Nei tuoi lavori affronti anche il tema dell’emigrazione. Cosa rappresenta l’immigrazione per te e perché senti il bisogno di rappresentarlo al teatro?
Più che il tema dell’immigrazione, presente in 2 dei miei lavori, in generale nel mio teatro è presente il tema del diseredato, della persona senza più luogo, senza casa, e questo per vari motivi. In particolar modo gli emigranti, in qualunque tempo e qualunque spazio sono persone che hanno perso il luogo perché non saranno mai integrati nel paese d’accoglienza – almeno le prime generazioni – e non sono più appartenenti del loro paese che li considera come quelli che sono andati via. Quindi gli immigrati mi sono sempre interessati in quanto diseredati.
Presentaci il progetto Ligabue, di cosa si tratta?
Il progetto Ligabue è una trilogia, tre spettacoli in tre anni. Un bes rappresenta la prima parte ed ho voluto raccontare attraverso la figura di Ligabue, una figura di marginalità messa al confine, una figura di diverso. In questo primo spettacolo affronto la vicenda umana, nel secondo la vicenda artistica e nel terzo il suo rapporto con i suoi due paesi che sono la Svizzera e l’Italia. Il progetto nasce perché io ero molto fragile rispetto all’argomento diversità, quando ho incontrato la figura di Ligabue nel suo paese – mi sono ritrovato di fronte al suo busto – io ero nel pieno del percorso con mia moglie per l’adozione internazionale di un bambino e sapevamo solo una cosa, che sarebbe arrivato da un paese del centro Africa, e che quindi sarebbe stato inequivocabilmente diverso. Per me una diversità è valore aggiunto, per qualcuno in Italia quella diversità è un problema. Allora per buttare fuori questa mia fragilità e avendo rincontrato per caso in quel momento la figura di Ligabue – che avevo incontrato da bambino nel famoso sceneggiato con Flavio Bucci (Ligabue, 1977) – ho scelto lui perché è il diverso per eccellenza, perché sbattuto in Italia ancora minorenne e che non parlava l’italiano, perché si diceva che fosse malato di mente e perché parlava col mondo attraverso le immagini e non con le parole. Era una figura perfetta per indagare questi temi.
La trilogia sta per giungere a compimento con la tappa conclusiva nei prossimi mesi…
Arriverà a conclusione il 24 aprile per quanto riguarda la Svizzera e il 21 maggio in Italia. Saranno coinvolti decine di artisti, sul confine svizzero saremo 35 artisti, sul Po saremo 150. Devo ringraziare chi ha permesso questa trilogia: il Festival di Narrazione di Arzo e la fondazione Pro Helvetia che ci ha sostenuti finanziariamente in maniera consistente, che ha creduto in questo progetto.
Quale sarà il punto di osservazione dello spettatore che vedrà Un bès – Antonio Ligabue?
Sarà un punto di vista da soggetto coinvolto. Il pubblico si renderà subito conto che è coinvolto ed è chiamato in causa e quindi non può astenersi dal partecipare e dallo scegliere da che parte stare. È un punto d’osservazione difficile perché non c’è la posizione di osservatore esterno, però – e dopo 100 repliche posso dirlo con sicurezza – immagino un punto di vista molto coinvolgente che altrimenti non avverrebbe.
Cosa accomuna l’uomo Perrotta al personaggio di Ligabue?
Probabilmente una visione altra dell’esistenza, una sensibilità diversa, nel caso suo per scelta di cose, nel caso mia per libera scelta. Lui messo al margine, preso in giro perché “matto”, per la sua pittura che non veniva capita dai suoi compaesani e fa una scelta forte di autoreclusione di 30 anni in un bosco e continua a parlare al mondo con i suoi quadri. Nel caso mio è una scelta dura e faticosa verso una società fatta di ministri che dicono che con la cultura non si mangia, che poi ha portato dei risultati. La mia vita è parlare al mondo attraverso il teatro.
Un bès – Antonio Ligabue ti ha reso il Premio UBU (2013) come Miglior attore dell’anno. Cosa è significato per te questo premio?
È il secondo che vinco, però la categoria è molto più pesante della precedente ed è un premio che anche attori notissimi del teatro italiano, come Vittorio Gassman, non hanno mai vinto. È un premio che di solito si spera di vincere a fine carriera. Mi dà la certezza che abbiamo centrato l’obiettivo con il progetto e che evidentemente mi era necessario farlo che ho dato il meglio sia dal punto di vista progettuale che interpretativo. Sicuramente rafforza la possibilità di pensare liberamente ai miei progetti senza dover dare conto agli altri di ciò che faccio e pensare liberamente al mio teatro.
Eveline Bentivegna
Un bès – Antonio Ligabue
30 marzo 2015-03-09 ore 12:00
Casa d’Italia di Zurigo