Né diversamente pensava Donato, che pure fin là, forte della stima che l’imperatore gli aveva manifestata con i tanti incarichi affidatigli, mai si era sentito minacciato da un sovrano così tollerante, né aveva avuto ragioni di temere per la vita. Pure, anche lui, progressivamente aveva colto la stessa minaccia di Lattanzio, e aveva capito che le riserve di Diocleziano verso la sua religione erano aumentate. Non lo rassicurò allora più che avesse lodato i lavori di Nicomedia e si fosse esaltato per la realizzazione dell’immenso palazzo di Salona. Nelle parole di elogio risuonavano anche accenti oscuri, che si erano infine palesati con l’emanazione degli editti. Anche se invero non l’avevano toccato personalmente: finché uno scritto anonimo l’aveva denunciato come cristiano. La legge allora aveva preso a fare il suo corso, costringendolo a presentarsi al processo istituito in riva al mare, in una mattina di primavera, dopo che il praeco aveva richiamato per le vie della città tutti coloro che avevano intenzione di assistervi.
Là Donato era comparso davanti al giudice, accanto a un altarino con vino, incenso, immagini degli dèi, strumenti di un sacrificio da tutti auspicato. Ve lo induceva ancora il disordinato vociare della folla, che esprimeva la propria opinione con lazzi o facezie di dubbio gusto. Alcuni reclamavano dal magistrato pene severe; altri supplicavano l’accusato di non morire da sciocco; altri lo ingiuriavano; altri lo compiangevano. Ma tutti gridavano, mentre si dava lettura dell’atto d’accusa, contro cui a Donato non restava che dimostrare la propria innocenza. Se esso fosse stato infondato, sarebbe bastato il semplice gesto di bruciare incenso sull’altare, e il giudice, per la facoltà che gli era concessa, avrebbe immediatamente potuto chiudere il processo, e rinviarlo a casa. Non prima, però, di aver espletato la procedura consueta, che si apriva con la costatazione dell’identità: a cui il giudice, pur conoscendo perfettamente l’architetto, aveva dato inizio anche con la speranza che sarebbe già bastata quella formalità a scagionarlo.
Contro ogni sua aspettativa, però, dopo la formale identificazione, alla domanda sullo stato civile, la famiglia, l’attività, e la condizione sociale, invece di rispondere in maniera accomodante, Donato aveva tranciato con fierezza di essere cristiano e libero per l’avvento del Cristo, così compromettendo il buon esito. Sordo inoltre alla preghiera di chi lo implorava di salvare la vita, aveva ribadito che effettivamente intendeva salvarla, la vita, ma non in questo secolo perituro, auspicandosi invece un’eternità di giustizia e fratellanza, che i suoi nemici non potevano capire. E a nulla era valso lo sbotto del giudice che non riusciva a intendere come si potesse rinunciare agli affetti più concreti per una ricompensa ultraterrena elargita da un dio sordo alla sofferenza. Non capiva, quel giudice che sapeva Donato uomo onesto e probo, come potesse gettare la vita per l’orgoglio di non volersi piegare a un umile gesto sacrificale. Verso cui lo invitava con parole sgorgate da un autentico moto di partecipazione, che avevano toccato persino la folla, scioltasi in una implorazione cantilenante. Parole condivise, in maniera contraddittoria, anche dallo stesso Lattanzio: da un lato ammirato per la fermezza dell’amico, e dall’altro angustiato perché, rifiutando di difendersi, gli additava la propria viltà.
E invece, dopo aver ringraziato l’umanità del magistrato che lo interrogava, Donato aveva alzato la voce solo per gridare ai presenti che, pur commosso dal loro appassionato invito, non se la sentiva di abiurare la sua fede. Sacrificare avrebbe implicato il rinnegamento di tutto ciò in cui aveva creduto; di tutto ciò che aveva ispirato la sua condotta e il suo pensiero, e aveva dato significato alla sua esistenza. Così costringendo il giudice, che aveva fatto tutto il possibile per salvarlo, ad esprimere una sentenza di condanna, da eseguire dopo trenta giorni di reclusione. Il tempo necessario per preparare la difesa, aveva subito calcolato Lattanzio, convinto di riuscire a convincere nel frattempo Donato a far ricorso in appello. Del resto non c’era stato mandato d’arresto; non si trattava di un uomo pericoloso, e sarebbe stato possibile ottenere per lui uno stato di custodia vigilata.
Il retore riteneva che sarebbe stato facile dimostrare che si era trattato di un equivoco e di un’accusa infondata, con cui ottenere almeno una riduzione di pena. E già gli turbinavano in testa le locuzioni dell’apologia, che Donato veniva condotto in prigione, attraverso un percorso di supplizio e di orrore, che lo aiutasse a rinsavire. Così scorse tutta una sequela di malcapitati, stretti da barre di ferro, legati a una ruota, appesi per i capelli o per i pollici, schiacciati da pesi, cosparsi di liquido e flagellati da insetti, chiusi in tuniche di pece e piombo fuso, riempiti di liquido bollente nelle narici, negli occhi, nelle orecchie o nel ventre squarciato, scorticati, sdentati, interrati, squartati, scorticati, arrostiti: in una corsa all’orrore in cui la spada o l’ascia sembravano gli strumenti più misericordiosi.
Dovunque guardasse, Donato scorgeva inediti e incredibili strumenti di tortura; da ogni parte si levavano pianti di strazio; e persino i familiari in visita venivano talvolta frustati, e defraudati dei pochi alimenti che recavano a modesto conforto, senza nemmeno poter vedere i loro cari. E al termine di questo percorso di atrocità, fu infine calato attraverso una botola in una cella maleodorante, senza aria né luce. Dove giacevano ammassati vivi e morti; dove i nuovi arrivati venivano gettati alla rinfusa; e dove la febbre e la purulenza rendevano l’aria irrespirabile, e dal suolo esalava un odore di poltiglia e escrementi, mischiati a cocci che laceravano la carne.
Ma laggiù, dove Donato era stato calato, Lattanzio non scese mai a visitarlo. Poiché, dopo qualche infruttuoso tentativo di fare riaprire il processo, nell’incrudelire delle persecuzioni sotto Galerio, e ormai solo preoccupato di mettere in salvo se stesso, il retore aveva lasciato di nascosto Nicomedia, al pari di Costantino, per spostarsi in Gallia, a respirare arie meno pesanti sotto i cieli di Costanzo Cloro.