Della sostanziale ambiguità della parola, Lattanzio aveva già dato non poche prove, fin dal giorno in cui aveva visitato Porfirio sullo scoglio di Lilibeo. Suscitando, ancora prima di comparire alla sua presenza, le riserve di Fileta, l’allievo che l’aveva scorto al mercato domandare informazioni sul famoso filosofo. E quel suo modo manierato di porre domande, quella boccuccia atteggiata a modesta investigazione, quella sua discrezione di supplica, che già non avevano convinto il famulus di Porfirio, si erano ulteriormente accentuati ai suoi occhi, allorché, dopo che evidentemente era riuscito ad ottenere l’informazione desiderata, Lattanzio scalava il sentiero del rifugio dove Porfirio conduceva la sua vita severa di studi e riflessioni.
Fileta, che aveva appena terminato di raccontare al maestro che in città circolava uno straniero che chiedeva di lui, aveva allora avuto conferma alle sue riserve. E già si sarebbe mosso a cacciare in malo modo l’intruso, se il maestro non l’avesse frenato. Lattanzio incedeva con movenze eleganti e affettate, come accade a chi, sapendosi osservato, si atteggia davanti all’obiettivo. E una volta giunto al cospetto di Porfirio, si era presentato come un modesto retore proveniente da Cartagine, sfoderando la captatio di aver ricevuto l’insegnamento di Arnobio, e di essere stato richiamato a Lilibeo solo dalla fama del famoso filosofo. Al quale aveva innanzitutto chiesto notizie sulle altre illustri personalità che aveva conosciuto, da Origene a Plotino: nomi, cioè, che gli avevano riempito la fantasia, e ai quali sperava di essere un giorno affiancato. Sì, perché il fatto di incontrare Porfirio, già celebre di suo, era per lui un po’ come entrare nel tempio della grandezza, che sembrava alitargli intorno l’alone di quelle anime estinte, consentendogli il lustro di evocarle con chi le aveva frequentate.
Non difettava, questa sua bassa voglia, di qualche scusante meno epidermica: se è vero che, generalmente parlando, persino chi imbastisce un’opera destinata a durare, ma portata avanti lontano dai riflettori della ribalta, non smarrisce solo la vanità di una comparsa o l’accesso a una conventicola salottiera; non perde solo la futile chiacchiera dei cenacoli, e il compiacimento prima e poi la noia di essere abbordato dalle cacciatrici di autografi, no. Rischia invece, più seriamente, di non aprire mai un colloquio con artisti magari ammirati, con i quali avrebbe potuto sviluppare un rapporto proficuo, di giovamento all’opera stessa, oltre all’eventualità di inaugurare una preziosa amicizia. Ciò che davvero perde, insomma, è il contatto con persone interessanti, che avrebbero potuto suscitare nuovi fermenti e contrasti, ed essere alla fine stimolanti per la stessa creatività. Col sospetto che magari alcuni di coloro con cui si sarebbe inteso, affondati a loro volta nel cicaleccio mondano a cui non riescono a sottrarsi, arrancano con la stessa ansia di dialogo, e sprecano serate intere nelle ciarle dell’evasione.
Benché non prioritaria, un po’ di questa consapevolezza si mescolava alla ben più forte spinta di vanità, che era la vera ragione dello scalo di Lattanzio a Lilibeo: anche se si sarebbe vergognato di ammetterlo persino a se stesso, bisognoso com’era di ammantare una debolezza sotto una seriosa necessità. Per questo aveva affisso a Porfirio una titubanza di crisi: lui che, educato alla fede degli dèi di Roma, sentiva uno strano fascino emanare dalla religione di Cristo, dalla cui seduzione sperava di liberarsi, colloquiando col filosofo che ne era stato intransigente avversario, fino a comporre un decisivo trattato. E per meglio rendere vivido il suo conflitto, l’aveva datato dal lontano giorno in cui aveva assistito a una scena di sofferenza, scosso dalle parole sublimi di un martire, che l’avevano portato a riflettere sulla misteriosa forza che poteva ispirarle nell’imminenza della morte.
Contro la sua stessa volontà, narrava inoltre Lattanzio, da allora si era lasciato affascinare dalla personalità di Gesù e dall’universalità del suo messaggio, con quell’invito alla giustizia e a un grandioso slancio di solidarietà verso il prossimo: così intraprendendo un percorso contrario a quello di Porfirio, che da quella fede si era allontanato a causa di dubbi sfuggenti al controllo della logica. Tanto era bastato perché Porfirio intendesse subito che Lattanzio aveva già fatto la sua scelta, e che si era recato da lui non per essere illuminato, ma per consolidarsi nell’acquisita convinzione che non si compiva affatto sul piano della razionalità.
Benché irritato dalle sue pretestuose circonvoluzioni, Porfirio non aveva voluto tuttavia congedarlo in malo modo; e pur sapendo di non avere presa sul già convertito Lattanzio, gli aveva nondimeno esposto i motivi per cui aveva abbandonato il cristianesimo, e composto un trattato a confutazione delle sue tante contraddizioni: dai miracoli al rituale; dalla presunta umanità del fondatore all’universalità del suo messaggio. Aveva contestato la dubbia levatura dei primi seguaci, assolutamente non paragonabile a quella dei filosofi greci; rilevato le incongruenze della sua morale, senza trovare alcuna prova per non contrarre i vangeli a discutibile dottrina. Né aveva mancato di dubitare del falso e insostenibile amore di quel un profeta autoproclamatesi figlio di Dio, e tanto invasato del culto di sé, da non poter essere assunto a modello di virtù.
Il filosofo, inoltre, neanche lontanamente aveva creduto alla retorica magnanimità esercitata nel controllo delle passioni, sotto cui astutamente tentava di riscattarsi Lattanzio, infervorato a evocare lo sforzo per superare l’animale che è in noi per recare agli altri il conforto della solidarietà. Inutilmente il retore, che non aveva mai provato una debolezza d’amore per concentrarsi solo sulla carriera, si sforzava di persuadere Porfirio che l’amore più autentico si solleva oltre gli affetti consueti e l’indifferenza del mondo. Ché davanti al rigoroso filosofo, che della questione aveva fatto oggetto di una intensa speculazione, mal a proposito cascavano vaghezze di perdono e misericordia. Come invece bruscamente lo aveva rimbrottato lo zoppo Fileta, zittendolo con la drammatica testimonianza del male sperimentate nella propria puerizia per mano del padre, che si rifiutava di giustificare. Dando così estro al maestro di ricordare allo sbalordito retore che soccombere al malvagio incrina il rispetto che ogni individuo deve a se stesso; e che nessuno deve lasciar calpestare la propria dignità, o subire ingiustizia, dal momento che il male non consiste solo in un’azione nefanda che si infligge, ma anche nella tolleranza che le si accorda.